“Fahrenheit 451”: Bradbury ci aveva visto giusto

Fosse ancora vivo, lo scrittore americano Ray Bradbury, ricordato in questi giorni a cento anni dalla nascita, dovrebbe constatare come il fosco presagio alla base del suo romanzo più famoso - “Fahrenheit 451’’ - si sia perfettamente realizzato.

Lo ricorderete per aver letto il libro o visto il film di François Truffaut: in un futuro distopico, forse non troppo lontano, i libri sono diventati clandestini. A impedirne la circolazione, insieme alla legge, una sorta di milizia a metà tra la polizia e i vigili del fuoco che ha il preciso compito di dare alle fiamme ogni residua raccolta, piccola o grande, di volumi: “Fahrenheit 451” sarebbe appunto la temperatura a cui brucia la carta. La gente, privata della lettura, è incoraggiata all’instupidimento indotto da visori più o meno interattivi. Colpito dall’ostinato attaccamento ai libri dimostrato da alcuni dissidenti, il protagonista Guy Montag, che all’inizio troviamo tra i miliziani più scrupolosi nell’appiccare i roghi, matura una nuova coscienza.

Ebbene, nell’anno distopico 2020 Bradbury non avrebbe difficoltà a riconoscere gli ampi confini di coincidenza tra il suo prodotto fantastico e la realtà dei fatti. Certo, non c’è una milizia che va in giro a bruciare i libri, eppure in qualche modo vediamo in distanza salire le fiamme e sentiamo l’acre fumo della combustione a portata di narici.

Che cosa succede? Innanzitutto, c’è ancora la censura. Non da noi forse, ma in aree tutt’altro che marginali del mondo. È notizia di questi giorni, per esempio, che dalle librerie di Hong Kong stanno pian piano sparendo i libri sgraditi al regime cinese. Una forma di prudente autocensura priva la città di opere “dissidenti”: quelle che ancora non vengono ritirate, semplicemente non saranno più stampate, e il tempo provvederà così alla loro definitiva cancellazione.

Nel nostro Paese non sono certo i librai ad autocensurarsi: a battere in ritirata sono invece i libri stessi che adeguandosi forse all’evoluzione (o involuzione) individualistica della società hanno da tempo smesso di far paura. Son diventati animaletti addomesticati, che spesso abbaiano e raramente mordono: romanzi consolatori e saggi pensati per partecipare alle eterne baruffe politiche - e non per superarle - si affiancano a una sorta di manualistica intellettuale, spesso d’importazione, il cui tono vuoto e saccente irrita fin dalla prima pagina. Questo senza contare che il preteso sforzo di “parlar chiaro” ha ridotto l’analisi del presente, da parte di chi ancora la tenta, a pensierini in serie, slogan semplicistici e tristi ricettari sociologici.

Si finisce così per sentire nostalgia degli “intellettuali” di una volta, perfino di quelli “militanti”, arroccati magari su posizioni linguistiche da “mi spezzo ma non mi spiego”: almeno ci provavano a saltare l’ostacolo della banalità e a entrare in territori a rischio di offesa o provocazione. “Provocatorio” oggi è un giornale che fa a dispetto un titolaccio per stuzzicare qualche tabù culturale o ideologico: alza un piccolo vespaio che si placa subito nella noia e nelle ironie da social network. Se nessuno scrive più libri come, tanto per fare un esempio, “Paura della libertà” di Carlo Levi, un motivo ci sarà, e cioè che Bradbury aveva ragione. Aspettiamo un nuovo Montag, che non si limiti però a salvare i libri ma ne scriva uno incandescente.

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