Ma la vita non può stare in un trolley

Ma la vita non può stare in un trolley

Le responsabilità pesano. Ma sono una ricchezza. Perciò è meglio girare con uno zaino pieno di pensieri per la moglie, i figli, la casa, i parenti, piuttosto che vivere 340 giorni all’anno in volo, soli, pensando di avere una vita perfetta solo perché si sta fuggendo dalla vita reale.
La parabola di «Tra le nuvole», raccontata da quel bel faccino di Clooney dietro la regia romantico-realistica- cinica di Jason Reitman, è questa. Puoi pensare che amare, sposarsi, far figli, crescerli, mandarli all’università, fare sacrifici per le case, insomma vivere e sporcarsi l’anima e le mani di sconfitte sia inutile perché tanto prima o poi divorzi (spesso), finisci all’ospizio (sempre più spesso), e comunque alla fine muori (in tutti i casi). Oppure puoi fare mente locale su unico punto: in tutti i momenti belli della tua vita non sei mai stato solo. La depressione ti viene quando non hai un copilota al fianco, perciò è meglio arrivare alla fine della vita con tutta la ricchezza di rapporti che hai seminato, piuttosto che evitare di piangere, sbagliare, soffrire solo perché hai scelto le luci finte di un aeroporto, lo stile impersonale di un albergo, l’anonimato dei miliardi di persone che incontri a ogni viaggio.
Tutto preciso, calcolato, perfetto, pronto a stare in un trolley dove calze, mutande, cravatte, camicie, giacche, sono incellophanate, divise, custodite nel miglior modo possibile per non occupare spazio. Viaggia leggero, Clooney, taglia teste senza provare emozioni. Ha come unico obiettivo quello di raggiungere i 10 milioni di miglia.
Ma poi si innamora. E allora scopre quanto puoi sentirti solo se chi ami non vuol più stare con te.

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