Cultura e Spettacoli
Martedì 20 Aprile 2010
"Così ho fatto a pezzi Rubens"
Il fotografo Carlo Pozzoni ha immortalato i particolari delle opere del grande fiammingo
Una mostra d'arte è sempre un evento. E non solo per il fatto che l'esposizione ha una durata limitata, ma perché nel momento in cui la si visita suscita talvolta impressioni inedite o nuovi stimoli, ma sempre e comunque piacere. Una sensazione di appagamento anche fisico che coinvolge non solo la mente ma anche il corpo.
Sin dalle fasi iniziali dell'allestimento della mostra "Rubens e i Fiamminghi" a Villa Olmo avevo pensato a come avrei potuto realizzare un lavoro sulla pittura con il mio strumento di comunicazione che è la macchina fotografica. La mia scommessa era infatti se fosse possibile realizzare lavori creativi e autonomi dall'opera originale senza copiare, ossia riuscire a realizzare una mia mostra che fosse anch'essa, appunto, un evento.
Non sapevo ancora come mi sarei cimentato nel confronto; per cui mi sono dapprima limitato ad aspettare il primo giorno di chiusura della mostra - un lunedì - e mi sono letteralmente immerso nell'universo barocco della pittura fiamminga. Non avevo idea nemmeno di come avrei operato: probabilmente con un obiettivo "macro", per meglio cogliere il dettaglio. Tuttavia, una volta da soli davanti a capolavori universalmente riconosciuti, senza protezione, immersi nel silenzio e nel buio della sala ma davanti al quadro perfettamente illuminato, ci si trova completamente indifesi, come se a essere senza protezione e nell'oscurità più totale non fosse solo l'opera che si ha di fronte. A permettermi di superare l'empasse ha provveduto un testo di Gilles Néret, che commenta l'opera di Rubens riportando un brano che ricolloca l'autore dalle vette eterne dell'arte a una più prosaica dimensione storico-materiale, tecnica, se vogliamo persino commerciale. Per poter realizzare le quasi 600 opere della produzione rubensiana, infatti, «lavoravano numerosi giovani pittori, ciascuno impegnato su una tela che il maestro aveva iniziato a gessetto, segnalando i colori nei vari punti e che in un secondo momento lui stesso avrebbe completato». Così, io stesso mi sono in qualche modo sentito parte della sua bottega, non più un intruso ma semmai un voyeur - del resto sono da sempre convinto che un bravo fotografo sia soprattutto un voyeur che invece di spiare dal buco della serratura osserva dal mirino della macchina fotografica. Così, posizionata la mia sul cavalletto, mi sono avvicinato alle tele più grandi del maestro sino a perdere di vista il soggetto complessivo identificando nuove inquadrature. Grazie alla tecnologia digitale che permette di rivedere immediatamente l'immagine scattata verificavo al computer cosa era diventato il quadro riprodotto, e in alcuni scatti mi sembrava persino di riuscire a scorgere i paesaggi del mio conterraneo Ennio Morlotti, in altri ancora addirittura le nature morte di Giorgio Morandi. Così Rubens mi ha infine permesso di trasformare la sua opera in qualcosa di totalmente diverso.
Ma se è vero che il digitale mi ha aiutato nel sezionare e selezionare le tele, è pur vero che esso, da solo, rimane ancora un qualcosa di astratto ed etereo. Per vincere la scommessa dovevo approdare a un risultato tangibile, dotato di una sua dimensione spaziale e temporale, ciò che costituisce appunto l'evento-esposizione artistica. Ed è proprio la distanza ravvicinata dal quadro che mi ha permesso di utilizzare, per dirla con le parole di Sergio Gaddi, «l'obiettivo della macchina fotografica come un microsopio», riuscendo a visualizzare «le fibre della pittura del maestro». Da qui l'idea di utilizzare un supporto non tradizionale per l'immagine fotografica: il tessuto. Già per altri lavori mi ero accorto che la stampa inkjet su tessuto conferiva alle immagini un effetto interessante: i contorni perdono di definizione e i colori diventato più sfumati. Il che crea un effetto quasi pittorico. Realizzare le stampe su tela era anche, in questo caso, un ritornare a dove avevo iniziato.
Carlo Pozzoni
© RIPRODUZIONE RISERVATA