Cultura e Spettacoli
Sabato 17 Gennaio 2009
Marinetti & Como,
Futurismo inedito
Sulle tracce del padre dell'Avanguardia del Novecento, di cui ricorre - il 20 febbraio - il centenario: l'amicizia con Butti e Lucini, le battellate sul Lario
Il suo comportamento nei confronti del Lario avrebbe potuto essere quello di un qualunque turista della domenica, che si diverte a fare una gita in battello o gradisce di essere l’ospite d’onore del salotto di una villa patrizia. Sono occasioni alle quali fa cenno lui stesso più volte nella febbrile rievocazione degli anni eroici della battaglia modernista, "La grande Milano tradizionale e futurista", lo zibaldone dettato a Venezia quando era gravemente malato e lo scavo nei ricordi era un modo per sentirsi vivo. Ma non fu così. Filippo Tommaso Marinetti finì per essere legato al territorio comasco, e particolarmente al lago, in tutto il corso della sua tumultuosa esistenza, giungendo qui, come sospinto dal richiamo di un insopprimibile destino, persino per morire.
Seguendo le tracce da lui lasciate in tutte le soste lariane, lo troviamo per la prima volta nell’estate del 1902, quando è un vigoroso ed esuberante giovanotto di 26 anni. Soggiorna all’hotel Bellevue di Cadenabbia e da lì si muove per far visita ad una cugina, Letizia Ossola, che lo chiama ancora con l’affettuoso diminutivo "Tom", che sta per Tommaso: ma in realtà all’anagrafe non risulta affatto né come Tommaso né come Filippo, ma con altri nomi, Emilio Angelo Carlo. Dunque la sua è un’identità inventata in famiglia e prelude a tutte le altre identità, spesso fantasiose, i "nomi d’arte" che assumeranno nel tempo i vari futuristi.
La visita parentale è comunque solo uno degli obiettivi che il giovane Tom si era proposto. Nemmeno il principale, perché il viaggio in treno e in battello a Como aveva lo scopo soprattutto di controllare lo stato di salute di un caro amico più anziano, il romanziere e drammaturgo milanese Enrico Annibale Butti, che ha i polmoni fiaccati dalla Tbc, spietata malattia che lo condurrà alla tomba a soli 44 anni. Per cercare una tregua al male che lo affligge, Butti è salito a Palanzo di Faggeto, prendendo in affitto una villa per un periodo di vacanza. Il drammaturgo, che conobbe un notevole successo a cavallo fra i due secoli per commedie di argomento sociale di un ibsenismo spiritualizzante, certo ben distinto dall’incisivo verismo di Praga e Rovetta, stava conoscendo allora un periodo di declino: e la sua innata malinconia, che ispirò a un caricaturista una vignetta in cui lo si vedeva attorniato da pipistrelli, lo rendeva simile ai personaggi che portava in scena, vinti, emarginati, piagati da un invincibile sfortuna. Per rianimare l’amico, che frequentava come lui i velluti rossi del Savini in Galleria, standosene però in disparte e «accontentandosi di arrotolare una sigaretta fra le dita scarne» (Linati, disincantato testimone) mentre gli altri discutevano animatamente, Marinetti propone una gita in barca a remi. Senonchè litiga e si azzuffa con il barcaiolo Bernardo Molina, che lo querela: e lui, durante l’udienza in pretura, scaglia un pugno in faccia all’avvocato Vittorio Bellasi, difensore del querelante, reo di non credere alla sua versione dei fatti…
A quelle sceneggiate il Butti assiste allibito, l’amico lo domina, con l’intento di proteggerlo. E per questo organizza in seguito al Teatro Sociale una recita dell’ultima sua opera teatrale, il drammone in versi "Il castello del sogno". Alla carenza di interpreti per i troppi personaggi, supplisce la buona volontà di un unico fine dicitore, il generoso poeta Francesco Pastonchi, che si adattò a entrare e uscire dal proscenio senza sosta recitando le varie parti. All’inizio il pubblico stette immobile, sforzandosi di capire: ma quando si accorse che c’era un solo attore, quel tipo dall’incedere maestoso e un poco vescovile, scoppiò un putiferio. Che Marinetti non si peritò di replicare qualche anno dopo al Lirico, interrompendo con schiamazzi il buon Pastonchi per dimostrare, in maniera alquanto inusitata, quanto gli spettatori fossero refrattari alla poesia, peggio quando si trattava di proporla attraverso le provocazioni futuriste.
Ma il risultato più eclatante del soggiorno sul Lario nel 1902, Marinetti lo raggiunse ottenendo un contatto con Gian Pietro Lucini, ardente vessillifero del simbolismo alla Baudelaire, Verlaine e Mallarmè, sottratto all’orbita dannunziana. Per raggiungerlo, il fondatore del futurismo scrisse da Gravedona a Gustavo Botta, finissimo francesista anch’egli partecipe dei simposi al Savini, pregandolo di chiedere al Lucini una benevola recensione della sua opera prima, il poema rutilante di colori e di metaforiche visioni "La conquête des Etoiles" "La conquista delle stelle") concepito nell’ambito della cultura simbolista/decadente ma con un ritmo accelerato, convulso. Botta ne parla a Lucini, che in quel periodo si trova al Dosso Lucini di Cardina in fase avanzata di costruzione sotto l’occhio vigile di Carlo Dossi, oppure, più frequentemente, nel suo eremo di Breglia (Plesio) trasformato in una specie di antro del mago, un po’ diabolico, che impaurisce i buoni villici.
Lucini riceve il poema, lo legge con entusiasmo e scrive a Marinetti che ne scriverà sulla "Gazzetta del Popolo" di lì a poco, il 27 agosto. L’articolo esce regolarmente, è molto lusinghiero, Marinetti ne è felice e il rapporto fra i due scrittori diviene costante, innescando una fitta corrispondenza. Lucini accetta di pubblicare per le edizioni della rivista "Poesia" un saggio sul verso libero propugnato in Francia da Gustave Kahn, tollera che appaiano anche sue raccolte di poesie con il titolo troppo clamoroso di "Revolverate", ma non accetta di entrare a far parte ufficialmente del movimento futurista, che nel frattempo è nato in modo a dir poco dirompente.
La sua cultura d’arte tardosimbolista non è in sintonia con le tesi rivoluzionarie di Boccioni, la sua scrittura arzigogolata e baroccheggiante non ha niente in comune con le nude parole in libertà. Ma è la politica a deciderlo all’abiura, quando l’interventismo futurista si pronuncia a favore della guerra in Libia. Il rifiuto sarebbe stato ancora più sdegnato e radicale allo scoppio della Grande Guerra. Ma è proprio nel 1914 che Lucini muore, con il corpo corroso da una tubercolosi ossea che l’ha ridotto a un troncone umano. La sua scomparsa passa inosservata, mentre infuriano nelle strade le battaglie fra neutralisti e fautori della guerra «sola igiene del mondo», secondo un roboante slogan marinettiano.
(I puntata)
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