Peppone
i politici
e la moglie
di Cesare

Chi è condannato non può fare il deputato». Lo dice il don Camillo di Guareschi immortale in televisione (come si vede anche in questo periodo) e nelle librerie. La vicenda è quella un processetto in cui Peppone, aspirante parlamentare, è accusato di aver rubato e divorato i polli del parroco. Era l'Italia della Prima Repubblica, gli anni '50 del centrismo democristiano, dal fattore k che impediva ai comunisti stalinisti di approdare al governo.
Come capita spesso l'epopea politica che stiamo vivendo ci porta a rimpiangere quei tempi, in cui anche a un condannato per un furto di polli era preclusa la possibilità di approdare il Parlamento. Il principio, elementare, si basava sul fatto che ci aveva violato la legge non poteva avere il diritto di manipolarla. Il ragionamento non faceva una grinza. Poi si deve essere perso qualcosa per strada. Nelle aule dei palazzi delle principali istituzioni nazionali sono arrivati Toni Negri e altri personaggi giudicati per reati di terrorismo.
Nella Seconda Repubblica i condannati seduti sugli scranni romani si sono moltiplicati come conigli. È stato calcolato che la legge in gestazione in questi giorni - che sbarra la strada per il Parlamento a chi ha ricevuto una condanna definitiva per alcune tipologie di reato - libererebbe un centinaio di posti. Va detto che il merito di questa legge va iscritto in gran parte a Beppe Grillo (peraltro anche lui condannato per un incidente stradale mortale) e all'agguerrita pattuglia dell'antipolitica, altrimenti l'idea di approvare una norma che impedisca a chi ha violato la legge (escludendo molti reati tra cui quelli fiscali) di poter legiferare non sarebbe mai passata per l'anticamera del cervello dei parlamentari.
Il dibattito in corso in questi giorni e le reazioni di alcuni signori che si indignano per la decisione del governo, però, non fanno altro che portare legna alla fornace dell'antipolitica.
Prendete Marcello Dell'Utri, senatore del PdL e già condannato in primo e secondo grado per reati di mafia. A lui, si può capire, queste legge non piace. Avesse però almeno il pudore di tacere. Invece no. Si indigna. Assieme a un altro parlamentare in odore in mafia come Cosentino.
Che dovrebbero dire i cittadini incensurati? Magari parleranno con i voti. Perché c'è anche da dire che sui condannati seduti sugli scranni del Parlamento e dei Consigli regionale grava un concorso di colpa che coinvolge anche chi contribuisce a mandarceli. Nelle recenti elezioni regionali siciliane, gran parte delle liste (a destra come al centro e a sinistra) presentavano personaggi con condanne e conti aperti con la giustizia.  Alcuni di loro sono stati eletti.
Certo, un argomento a favore dei condannati nelle istituzioni è quello legato a quella sorta di maionese impazzita che è il rapporto tra politica e giustizia.
Nel dubbio però l'unica legge che dovrebbe valere è quella della moglie di Cesare. Chi aspira a rappresentare il popolo deve essere al di sopra di ogni sospetto. È meglio un innocente incandidabile o un delinquente in Parlamento?
Francesco Angelini

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