Lo spettro
del nuovo
si aggira
per l'Italia

  Che la storia si ripeta due volte, la prima volta in forma di tragedia e la seconda in farsa, è una delle citazione più note di Karl Marx.
Credo andrebbe, per onestà intellettuale, giustapposta all'altrettanto celeberrimo incipit del Manifesto del Partito Comunista: la storia di ogni società esistita finora è storia di lotte di classi.
Questo non per ripiombare nel materialismo marxiano. Ma perché la politica ci fornisce, di tanto in tanto, la prova di straordinarie regolarità. Pensate per esempio allo spettro che oggigiorno si aggira per l'Italia: l'ansia del “nuovo” . Non è alla sua prima apparizione: aveva già infestato talk show e comizi di piazza nel 1992-1993. Allora, tutta una classe politica fu impacchettata e consegnata alla storia, sull'onda del ragionevole sdegno per quella corruzione sistemica che Manipulite aveva rivelato. Tutto bene quel che finisce bene? Non proprio, perché quell'ansia di farla finita, e in fretta, coi vecchi partiti, ci consegnò a una classe dirigente per metà improvvisata, e per l'altra metà fatta delle seconde file della prima repubblica, gente che aveva le mani pulite soprattutto perché mai aveva avuto occasione di togliersele di tasca. Oggi quella classe politica, assieme ai pochi volti nuovi che poi fortunosamente è riuscita a rastrellare nella cosiddetta “società civile” (una sorta di borsa di Mary Poppins nella quale si è pescato di tutto), trema per la paura di un altro processo sommario.
Purtroppo, le classi dirigenti si selezionano: non s'improvvisano. Con la fine della Prima Repubblica, non finì quel “sistema” fatto di voto di scambio, imprenditoria statale, utilizzo allegro della spesa pubblica a fini di consenso che l'aveva segnata. La Seconda Repubblica è stata, sin da principio, gattopardesca per tante ragioni. Però non è fra le meno rilevanti il fatto che, proprio quando esplodeva la crisi di sistema, l'Italia assieme bramava un ricambio di classe dirigente e perdeva gli organismi deputati a consentirlo: i partiti politici.
Siamo in un momento particolarmente complesso. Eppure, fra i pezzi di classe politica sommersi dagli scandali, gli unici che siano riusciti a mettere in atto un autentico ricambio al suo interno, espellendo implacabilmente le tossine, sono i leghisti: la Lega è il più “classico”, per forma organizzativa, dei partiti italiani. Nello stesso tempo, la faccia più nuova e il lessico politico più dirompente sono quelli di un giovane sindaco di pura razza democristiana, Matteo Renzi, il cui successo è una testimonianza di come il Partito Democratico, nonostante l'oligarchia che lo governa da vent'anni, sia ancora sufficientemente vivace, quanto a cultura politica, da far crescere una personalità di primissimo piano. Lo spappolamento è invece totale nel campo dei nuovi che più nuovi non si può: nel recinto di quel Silvio Berlusconi che considera per definizione i partiti un fastidio, tant'è che non ha mai trasformato in partito il suo movimento.
Anni fa, un intellettuale e politico liberale, Antonio Martino, diceva col sorriso sulle labbra: abbiamo già fatto esperienza dei politici di esperienza e non è stata una bella esperienza. Giustissimo. Ma i politici senza esperienza non hanno fatto granché meglio.
L'amara verità è che governare è un mestiere. E che la politica ha le sue regole. Una, banalissima e a tutt'oggi vigente in tutte le democrazie del mondo, è che i progetti politici si aggregano attorno alle leadership. L'Italia che andrà al voto a marzo sarà, sotto questo aspetto, un interessante laboratorio: il leader del nuovo partito che andrà per la maggiore, Beppe Grillo, non si può presentare al Parlamento, e i capi di diverse aggregazioni nascenti, a cominciare da Luca di Montezemolo, spergiurano di non averne nessuna intenzione. Gli elettori sono spettatori distratti del gioco democratico - perché per la maggior parte di loro la vita è, comprensibilmente e giustamente, altro (il lavoro, gli affetti, gli hobby, le passioni...). In un'Italia senza leader, come faranno ad orientarsi fra i sempre troppi simboli sulla scheda elettorale?
I partiti politici ci stanno antipatici, perché li associamo tutti alle loro degenerazioni. Ma quando funzionano, sono per l'appunto uno strumento di selezione della classe dirigente: scremano le scelte che verranno poi presentate agli “utilizzatori finali” della democrazia, cioè ai cittadini.
Il loro autodafé non è di buon auspicio. A una classe dirigente in disgrazia, non è facile sostituirne una migliore. Il ricordo del
'92-'94 dovrebbe insegnarci che non è un processo automatico. C'è del marcio a Roma, ma prima di augurarci che tutto crolli ricordiamoci che i più abili a sopravvivere, fra le macerie, sono i sorci.
Alberto Mingardi

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