Creiamo un web
rispettoso e civile

Due pensionati finiscono in ospedale malconci dopo essere andati con la loro auto contro un cancello, e tutto quello che Ketti Colzaki (che probabilmente non esiste, e chissà chi si nasconde dietro questo profilo fasullo) riesce a commentare su facebook suona così: «C… loro, ora che paghino il cancello a peso d’oro». Alfredo Frigerio, invece, trova la notizia divertente e ci scherza su: «Forse volevano raddrizzare la curva». Mentre Renata Rizzardi ha già fatto i rilievi dell’incidente, ricostruito la dinamica e infine emesso la sua sentenza: «sicuramente andavano adagio…».
Empatia, questa sconosciuta. Se queste tre persone, prima di agitare i polpastrelli sulla tastiera, avessero letto anche solo il primo punto del manifesto della comunicazione non ostile, mettendone in pratica le buone prassi suggerite, avrebbero risparmiato a loro stesse l’onta di finire nel girone degli “odiatori social”. Quel manifesto, che oggi trovate su Diogene, abbiamo deciso di farlo nostro. E di aderire alle dieci regole per creare una Rete rispettosa e civile.

«Dico e scrivo in rete solo cose che ho il coraggio di dire di persona», recita il primo punto. Proviamo a immaginarli Ketti, Alfredo e Renata nella stanza d’ospedale dove i due pensionati sono ricoverati, con i loro traumi, le loro fratture e il loro dolore. Pensate davvero che avrebbero il coraggio di ripetere ciò che hanno scritto su facebook? Sicuramente no. Come quel coraggio non lo hanno tutti quelli che, dopo aver insultato, minacciato e infamato altre persone via social, finiscono per risponderne in Tribunale. Tutti, senza eccezione alcuna, si schermiscono dietro a un poco convincente: «Sono stato frainteso». E invece non esiste dubbio sul significato delle parole di odio riversate in questi giorni via social alla meravigliosa Giorgia Linardi, giovane comasca la cui colpa è aiutare esseri umani nati nella parte sbagliata del Globo a non morire. Così come sono cristallini i concetti trasmessi dal post - poi cancellato - da una politica barese quando ieri, dopo la notizia del naufragio e della morte di 117 esseri umani nel Mediterraneo, non ha trovato niente di meglio che scrivere: «E per altri 117 la pacchia è finita».

Il grande paradosso di facebook, instagram, twitter e di tutti quegli strumenti nati per essere “social”, è di aver preparato il terreno fertile a intere coltivazioni di persone asociali. Gente incapace di provare un minimo di empatia nei confronti degli altri. Fateci caso: i post più condivisi, quelli che ricevono il maggior numero di like, quelli di maggiore successo, nella stragrande maggioranza dei casi veicolano insulti, rabbia, messaggi d’odio nei confronti di una singola persona o di una categoria. E gli utenti che più commentano notizie di cronaca o di politica lo fanno, nella maggior parte dei casi, per infamare, accusare, denigrare.

Alle parole d’odio sul web, alle loro conseguenze e ai loro danni, dedichiamo oggi due pagine di Diogene, il settimanale che vuole raccontare la Como solidale. Un approfondimento che non è fine a se stesso, ma che vuole essere il punto di partenza per un nuovo modo di comunicare, a partire da noi stessi e dai nostri canali social.

Perché è così importante cambiare il paradigma della comunicazione sul web? Perché la storia insegna che attraverso l’odio l’uomo ha aperto le pagine peggiori della propria storia. L’odio verso i Tutsi ha generato il genocidio del Ruanda. L’odio propagandato da Pol Pot si è trasformato in milioni di cambogiani sterminati. E, soprattutto, l’odio per gli ebrei ha prodotto la Shoah. La storia si è interrogata spesso su come l’uomo possa essersi macchiato di un’atrocità quale l’olocausto. Su come persone normali si siano trasformate nei “volenterosi carnefici di Hitler”, denunciando i vicini di casa, gli ex amici, partecipando a manifestazioni violente contro i nemici dei nazisti. La risposta è complessa, ma l’humus dov’era il seme da cui tutto questo è nato è uno e uno soltanto: l’odio.

«Le parole sono un ponte», recita il manifesto della comunicazione non ostile. E i ponti sono stati creati per unire, non per dividere. Ritroviamoci su quel ponte, per riscoprire il fascino della gentilezza.

© RIPRODUZIONE RISERVATA