La lezione di Anna
ai “prof” della vita

Quando a un ragazzotto capita di passare da un giornale di provincia a uno nazionale, all’inizio si gira un film tutto suo. Facile fare il fenomeno nel quotidiano locale, tra un tombino saltato, un incidente in motorino o un’assemblea degli ambulanti, ora vediamo come te la cavi tra un ministro, un presidente di Regione o un vip del rutilante mondo dello showbiz. E ti immagini anche che lì viga un codice spartano, una vera giungla di belve feroci, un mare di squali, un serraglio di cobra. Una roba un po’ all’americana, da film hollywoodiano sui cronisti d’assalto. Tu vinci e prendi tutto, tu perdi e finisci per strada con le scatole di cartone.

Ma è vero il contrario. Anche nei giornali nazionali non vale la legge - spietata, anglosassone, calvinista - del più forte o del predestinato, ma quella - melmosa, verdognola, dorotea - del mediocre. Anche lì - che delusione - la dinamica è sempre la stessa. Salamelecchi circensi e slappate bavose alle scarpe del mega direttore siderale, inchini e piroette al suo vice vicario e sicario, sorrisi e manfrine con chiunque abbia un mezzo grado e che possa avere un ruolo in quel vero inferno in terra che sono le redazioni dei giornali, così come gli uffici in genere. Perché poi, inesorabile, tutto il carico di frustrazioni, velleità e rancori mobbizzatori va a scaricarsi sugli ultimi anelli della catena biologica.

Ad esempio, c’era una collega che impersonificava il perfetto parafulmine sul quale il corpaccione redazionale poteva vomitare tutto il suo livore astioso. Un punching ball. Un orso del Luna Park. Era proprio il tipo ideale. Grande, grossa, sgraziata – da qui il soprannome “la Multipla”, per accostarla a un modello Fiat particolarmente ingombrante -, religiosissima, oggettivamente inadatta a un lavoro giornalistico in un quotidiano così aggressivo e iracondo come quello e, quindi, oggetto dei lazzi, dei frizzi, delle irrisioni, delle battutacce da caserma in riunione, nei corridoi e, soprattutto, alla macchinetta del caffè, vero topos della fogna esistenziale dei travet della notizia. E la Multipla di quà e la Multipla di là e sapessi cosa ha detto oggi e sapessi cos’ha combinato ieri e sapessi che figuraccia ha fatto con quello lì e sapessi che cazziata si è beccata da quell’altro là. E tutti a ridere e sghignazzare e sguaiare con le mani sulla pancia e tirandosi gomitate nei fianchi e a maramaldeggiare e ad esercitarsi nel calcio dell’asino, specialità nella quale la nostra categoria di falliti e di vigliacchi se ce n’è una non prende lezioni da nessuno. Facile infierire sugli inermi, vero?

Poi, una mattina, guardando la prima pagina del Corriere, abbiamo letto una notizia clamorosa: “La prima giornalista donna nella storia dell’Osservatore Romano”. E quella donna era lei. Sì, la macchietta della redazione, la poveretta, l’incapace, della quale abbiamo scoperto solo allora un curriculum culturale strepitoso con tanto di coltissima tesi di laurea in letteratura latina medievale. Che schiaffo. Che umiliazione. Che vergogna. Che grande, immensa, sanguinosa pedagogia. Una mattinata memorabile. Tutti noi scienziati, noi cervelloni, noi intelligentoni, noi firme, noi grandi capi e capetti e strateghi e giganti del Novecento presi a schiaffi dalla realtà e immortalati nella nostra ridicola pochezza. E che rivincita per lei. La stessa - senza paragoni sacrileghi, per carità - di Buzzati, che in via Solferino lo chiamavano tutti “Cretinetti” e che oggi rimane uno dei pilastri del giornalismo e della letteratura italiana contemporanea, mentre dei suoi stalker non resta nemmeno la polvere dei loro sepolcri. Metafore.

Un caso simile lo abbiamo anche qui, in casa nostra. Non uguale, ma simile. Anche noi abbiamo in redazione una collega che - diciamoci la verità - nessuno ha mai preso sul serio. E come si fa? Troppo surreale. Troppo lunare. Troppo proveniente da chissà quale pianeta misterioso. Troppo pasticciona quando ti racconta una cosa e nel frattempo te ne racconta altre tre. Troppo pura. Troppo indifesa in questo mondo di mostri. Una mascotte. Una simpatica mattocchia. L’imbranata per antonomasia. E allora manda l’Annina a fare questo e manda l’Annina a fare quell’altro e manda quella svagata dell’Annina a fare quell’altro ancora e sempre quel mezzo sorriso, quell’aria di superiorità paternalista perché va bene, sei tanto simpatica, ma adesso, per favore, lascia lavorare noi adulti. Poi, però, la mascotte si è ammalata - gravemente - e abbiamo visto con quale coraggio abbia sbranato la malattia, rimanendo quasi sempre in redazione a lavorare, alla faccia di tanti frignoni valetudinari. E come poi, proprio ora, abbia pubblicato per Mondadori il racconto di questa sfida.

Non avremmo dovuto averne bisogno, per capire il valore di quella persona. Avremmo dovuto arrivarci da soli. Dovremmo essere molto più acuti, molto più lucidi, molto più umili, invece di tiracela sempre da professori del mestiere pensando di essere noi quelli indispensabili. Nessuno è indispensabile. Nessuno. I cimiteri sono pieni di gente indispensabile. E dovremmo capire quanto avesse ragione Ermanno Olmi in quel passaggio commovente dell’Albero degli zoccoli, quando fa dire alla mamma che ha appena partorito l’ennesimo figlio destinato alla fame e alla sofferenza: “A ogni bambino la Provvidenza dà il suo fagottino”. Non ci sono persone senza talenti. Tutte ne hanno uno, almeno uno. E il dovere di chi ha la responsabilità di dirigerle, è andare a cercarlo, trovarlo, esaltarlo. È così bello vedere un talento, perché averne paura?

Una grande lezione per tutti quei sopracciò, quei quaquaraquà che venderebbero la mamma pur di pubblicare un libro, anche se non hanno niente da dire. E soprattutto per chi scrive questo pezzo, che ogni domenica propina il suo sermone con il ditino alzato e pensa di essere una grande penna con i suoi aggettivi desueti e che invece da una come Anna Savini dovrebbe, forse, imparare a scrivere e, soprattutto, a stare al mondo.

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@DiegoMinonzio

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