Perché ci tocca
tifare per Renzi

Aldo Moro, al congresso della Dc del 1960, ci mise cinque ore, con devastanti effetti letargici, a spiegare perché bisognava aprire al centrosinistra. A Matteo Renzi sono bastati venti minuti per liquidare l’esperienza del governo Letta senza provocare cali di palpebre. Anzi. L’idea di questo passaggio politico è proprio quella della sveglia, dei tempi rapidi, vorticosi, di un cambio di passo inteso davvero in senso fisico, palpabile. Questa è almeno l’intenzione del premier in pectore che ha sfoderato un decisionismo indedito dai tempi di Craxi, altro che la liturgica Dc che peraltro ha tenuto a balia Matteo.

Per capire il senso di un passaggio ai più incompresibile (un governo che se va da un giorno all’altro senza scomodare il Parlamento), è necessario scindere il fumo dall’arrosto. Il fumo, tossico e irritante è quello del terzo premier scelto senza la legittimazione delle urne (certo non un incentivo per tornare a frequentarle), dei riti stantii e sgradevoli da Prima Repubblica (anche se non tutti ricordano che l’unico presidente del Consiglio a cadere in Parlamento su un voto di sfiducia è stato Prodi, gli altri sono stati tutti sfrattati con modalità non previste dalla Costituzione). Ci sarebbe da allibire anche per certe dichiarazioni dell’ormai ex sindaco di Firenze: mai a palazzo Chigi senza un voto popolare e prima ancora mai in corsa per le primarie da segretario del Pd. Negli Stati Uniti adesso lo inseguirebbero con le picche, ma noi ai politici che cacciano balle siamo assuefatti da un ventennio e anche più. Così come non ci si stupisce davanti all’ennesimo campionato nazionale di salto sul carro del vincitore (fosse specialità olimpica, l’Italia farebbe incetta di medaglie). Nel 2011 eravamo tutti montiani, a febbraio di quest’anno lettiani ora renziani. Domani boh.

Meglio allora guardare all’arrosto, o meglio alla Fiorentina. Perché questo governo che si appresta a partire con passo garibaldino, dovrebbe far proprio anche il motto dell’Eroe dei due mondi: qui si (ri)fà l’Italia o si muore. Anzi muore l’Italia. La cura Letta, al di là dei meriti e delle qualità del personaggio era omeopatica. Invece ne serve una da cavallo. Al di là dell’ambizione che lo divora, Renzi ha scelto il quadruplo salto mortale poiché si è reso conto che il precedente governo avrebbe vivacchiato ancora un annetto o due per poi trascinare nella palude anche il Pd e il suo segretario e rischiare di ridare le chiavi in mano al Cavaliere, grazie anche all’Italicum, voluto da Matteo, certo. Allora o la va o la spacca.

Se andrà, Renzi entrerà nella storia, altrimenti farà la fine dei pifferi di montagna: da rottamatore a rottamato nell’affollata discarica dei tanti aspiranti statisti triturati dal Pd. All’Italia, piaccia o no il piglio del sindaco di Firenze, tocca fare il tifo per lui.

Quando si sta sull’orlo del baratro non si può parteggiare per chi, consapevolmente o no, tenta di darti una spinta.

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