Sanità lombarda

Imperfetta ma migliore

La nostra Regione ha probabilmente la migliore sanità del Paese. Per molti motivi: uno di questi è la riforma che nel ’97 portò alla separazione delle funzioni di finanziatore ed erogatore di servizi alla salute. In Lombardia il denaro pubblico paga le prestazioni e segue il paziente, anziché essere incanalato a sostegno delle diverse articolazioni del sistema. La conseguenza più evidente della riforma è stata la crescita di un importante segmento di operatori di diritto privato, alcuni for profit, altri non profit.

Il sistema non è perfetto. Gli operatori di diritto privato non profit (pensiamo ai casi
Maugeri e San Raffaele Fondazione Monte Tabor) sono stati gestiti molto spesso con scarsa trasparenza, paradossalmente perché “liberi” dalla disciplina invece propria delle imprese di mercato. Più in generale, da inizio anni Duemila l’equilibrio pubblico-privato pare quasi cristallizzato. Non sono arrivati in Lombardia grandi operatori internazionali, il pubblico ha difeso con le unghie e con i denti la “sua” rete ospedaliera, anziché aprirsi a potenziali nuove partnership col privato.

Dovrebbe partire di qui una iniziativa di manutenzione di quel “modello lombardo” che resta all’avanguardia in Europa, e probabilmente il migliore d’Italia. La Lombardia “importa” pazienti dal resto del Paese. Conta, certamente, l’eredità di antiche dinamiche migratorie, ma soprattutto la qualità percepita delle cure. Che è elevata, in una Regione che continua a formare medici eccellenti e che dovrebbe imparare a fare della salute un punto d’attrazione, anche nel più vasto contesto europeo.

Purtroppo invece si parla d’altro. Il consiglio regionale ha approvato un ordine del giorno del Partito democratico, con cui si chiede alla giunta di superare il sistema di finanziamento delle “funzioni non tariffate” in ambito sanitario. Le virtù del “modello lombardo” risiedono nel rimborso delle prestazioni sulla base di un tariffario pre-determinato. Le funzioni non tariffate riguardano invece fondi che la Regione assegna ad Asl e ospedali per finanziare, ad esempio, la ricerca, la didattica universitaria, la riabilitazione e le prestazioni di emergenza-urgenza. C’è un problema di discrezionalità nell’allocazione di queste risorse: fra il 2003 e il 2010, a beneficiarne sono stati all’80% (ottanta per cento) soggetti pubblici. Nel privato, parallelamente, quasi il 40% del totale veniva assorbito da due sole realtà non profit.

Ridurre la discrezionalità è sicuramente un obiettivo condivisibile: proprio per la buona manutenzione di un sistema nel quale “il denaro segue il paziente”. Ma è immaginabile, cari consiglieri regionali, l’eliminazione tout-court di uno strumento che, per intenderci, tiene in piedi la rete dei pronto soccorso della Lombardia?

Negli scorsi giorni, s’è insediata una Commissione di dodici saggi che dovrebbe aiutare la nuova giunta a ripensare la sanità. Peccato che un nuovo “piano regolatore” sia l’ultima cosa di cui ha bisogno la sanità lombarda. Il nostro sistema è forte perché ha consentito l’applicazione di intelligenza imprenditoriale alla fornitura del servizio-sanità. Chiunque abbia trascorso un po’ di tempo in un ospedale sa che si tratta di realtà complesse, nelle quali i fattori della produzione sono estremamente eterogenei. Il “privato” non è un feticcio ideologico: serve a portare nel sistema quella capacità manageriale che il contrario del privato, cioè la gestione burocratica, non sa costruire.

In un Paese che cade a pezzi, la sanità della nostra Regione è una delle poche certezze positive. Servirebbe una buona manutenzione del sistema, da parte di una classe dirigente consapevole fino in fondo dei suoi punti di forza. I fuochi d’artificio del Consiglio regionale o le schermaglie fra esperti non sembrano il modo più appropriato per migliorare qualcosa che ha un indubbio vantaggio: è migliorabile senza essere disastroso.

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