Il miglior augurio:
basta alibi,
più responsabilità

Nei giornali esiste un luogo fisico che rappresenta la vera metafora della professione: la macchinetta del caffè. Lì ci si ritrova - mentre i giornalisti veri sgobbano a caccia di notizie - per commentare i destini dell'universomondo e per tranciare giudizi definitivi sull'umanità: e quanto è odioso questo e quanto è lavativo quello e quanto è cialtrone quell'altro, per non parlare di quel maledetto che è diventato capo dello sport solo perché qui comandano sempre gli amici degli amici o di quell'altro ancora che l'hanno messo al politico visto che è tutta la vita che lecca i piedi a quelli là. E su tale cosmogonia incombe un clamoroso, assoluto, planetario complotto demo-pluto-giudaico architettato per vessare i probi, gli onesti e i migliori, umiliati e offesi proprio a causa della loro algida incorruttibilità. Pensate per un attimo al vostro ufficio, non è così che funziona nei posti di lavoro?
E adesso c'è pure la crisi, che secondo tutte le previsioni ci riserverà un inizio d'anno talmente terribile da mettere a rischio addirittura la sopravvivenza di molte delle nostre aziende. Recessione, speculazione, troppe tasse, troppi sprechi, troppe lobby, niente crescita, pochi investimenti, tanti privilegi, pochissima innovazione, nessuna idea di futuro: sembra tutto orchestrato per farci credere che non ci sia niente da fare, che sia già tutto deciso e che, quindi, ci si possa rifugiare tutti quanti dietro il più formidabile degli alibi. Diciamoci la verità, per quanto si abiti nel bel mezzo della Padania, siamo pur sempre tutti quanti italiani e in quanto italiani continuiamo a rifarci al testamento spirituale che ci è stato consegnato da secoli e secoli di storia patria: è sempre colpa di qualcun altro.
Comodo, no? Più i tempi sono difficili, più i destini delle nostre vite e delle nostre famiglie sembrano sballottati da eventi mille volte più complessi di noi e del tutto incomprensibili, oltre che ingiusti, più è facile, addirittura umano, mollare tutto e convincersi che impegnarsi non serva a nulla. Tanto è già tutto deciso. Beh, non è così. Mai come adesso è fondamentale che ognuno di noi dia veramente il meglio di sé, ognuno nel proprio ruolo, ognuno con le sue competenze, ognuno col proprio senso di responsabilità. Non è vero che c'è chi conta tanto e chi non conta niente: anche l'ultimo dei ragazzi di bottega che pensa di contribuire solo con lo zero virgola alla fattura di un prodotto o alla ricchezza di un'azienda - e quindi chissenefrega - sappia che invece è responsabile al cento per cento del suo zero virgola e che la salvezza del suo posto di lavoro dipende anche e soprattutto dal suo impegno.
L'epoca delle garanzie assolute, degli stipendi assicurati, della ridondanza degli utili a prescindere da tutto il resto, dei mercati protetti e del cappello dello Stato che tanto alla fine ci pensa lui a tenere in piedi la baracca sono finiti per sempre, anche il giorno in cui la crisi dovesse essere superata. Quel mondo non c'è più, per quanto la retorica veterosindacalese e i peggiori vizi nazionali - riassunti da quel mellifluo filo rosso che si dispiega da Guicciardini a Longanesi (e fino ad Alberto Sordi...) e che ci ha marchiato a fuoco come quelli che non hanno mai finito una guerra con gli stessi alleati con cui l'avevano iniziata e come il paese dove tra destra e sinistra si litiga di giorno per poi mettersi d'accordo la notte - facciano di tutto per convincerci del contrario.
Nessun pasto è gratis. Prima ce ne rendiamo conto e prima assumiamo su di noi - su di noi tutti, nessuno escluso - il pesante carico della crisi prima ne usciremo vivi, alla faccia dell'incompetenza del passato governo e dalla delusione provocata finora da quello in carica. Tempi eccezionali richiedono, se non idee, almeno impegno eccezionale. Non c'è più spazio, nelle nostre aziende e nei nostri Comuni, per chi pensa di andare avanti a farsi gli affari suoi e a rubare lo stipendio.
Diego Minonzio

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