I numeri
amari
e l'Italia
immutabile

  Un brutto autunno, questo, per il premier Mario Monti. Non dal punto di vista meteorologico, naturalmente, ma da quello politico ed economico. Un autunno che può segnare un tramonto ingiusto per un'esperienza di guida del Paese che pure, finora, l'ha salvato da una tragedia in salsa greca.
Distratti dalle primarie vinte ieri sera da Bersani, non va dimenticato che l'unico raggio di sole sul governo arriva dallo spread che si avvicina a quota 300 e il collocamento dei titoli pubblici (l'ultimo qualche giorno fa con i Bot a sei mesi sotto l'1% di rendimento) che aiuta le finanze pubbliche. Ma per il resto, la grande stagione dei decreti "Salva", "Cresci" e "Semplifica" Italia rischia di chiudersi con un nulla di fatto o poco più, dagli effetti concreti trascurabili. E, con l'esclusione della riforma delle pensioni e di quella, più controversa, del lavoro, perfino la riforma elettorale potrebbe non superare il Moloch del Porcellum attuale.
Il premier si mostra sereno, nonostante tutto. Ma l'Ocse ha previsto recessione anche per il 2013 con un preoccupante -1% e i consumi interni che quest'anno toccheranno il picco inferiore record del -3,2% (il peggiore dal dopoguerra) e restare in negativo anche l'anno prossimo (-1,1). Senza dimenticare che di nuovo lavoro non si parla, anzi la disoccupazione è vista lievitare quasi al 12% con quasi 4 giovani su 10 senza un'occupazione.
Di fronte a questo si assiste a un ingorgo legislativo, prologo di una possibile certificazione di fallimento che potrebbe accompagnare la conclusione dell'esecutivo. Il guaio sta nel traguardo che per il governo si è avvicinato troppo: se si andasse a votare il 10 marzo (senza pensare alla catastrofe della crisi anticipata), la Camere devono essere sciolte prima della fine di gennaio. Messe in calendario la necessaria legge di stabilità e le ferie natalizie, resta davvero poco tempo per il resto. Così la delega fiscale è in bilico, ma rischiano i decreti sui costi della politica, il decreto sulla crescita bis, quello sul Tfr degli statali, il riordino delle Province e quello sul sisma in Emilia. Sui binari morti sembrano indirizzati anche il Ddl sulle semplificazioni, il riassetto del sistema carcerario sull'ordinamento forense, diverse leggi comunitarie, la revisione del falso in bilancio, il divorzio breve.
Monti ostenta fiducia, resta in surplace su un suo ritorno, ma non perde occasione per ricordare che il lavoro di accreditamento presso Stati e mercati esteri non dev'essere gettato via. E per dare un segnale di ciò che ci aspetta, ha avvertito che la sanità pubblica potrebbe non reggere. Questo pur con sei manovre in cinque anni, che a fine 2015 porteranno il taglio a 30 miliardi, compresi forse i risparmi della spending review, quelli che dovrebbero impedire che fra un ospedale e l'altro una siringa costi il 133% in più e un pasto del paziente sconti differenze fino al 9,5%.
Nonostante ciò entro 40 anni, dice lo studio Meridiano sanità dell'Ambrosetti, la spesa raddoppierà fino a 260 miliardi, sebbene il tasso di crescita annuo italiano di questo esborso sia del 3,6% contro, ad esempio il 5,4% americano e la spesa sanitaria pubblica pro capite sia di 2 mila 265 dollari in Italia, ma di 3 mila 331 in Germania.
E nonostante le stesse uscite per la sanità pubblica in rapporto al Pil, siano del 7,3% qui, dell'8% in Gran Bretagna, dell'8,9% in Germania e dell'8,5% addirittura negli Stati Uniti. Come dire che investiamo meno degli altri nella sanità pubblica e ci costa enormemente di più. Il solito discorso, l'eterno essere dell'Italia che non cambia, per la quale neppure questo Monti è bastato.
Umberto Montin

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