Così il manager
divenne clochard

Angelo Starinieri, comasco, racconta in un libro la sua incredibile avventura, che pare il copione di un film. Così si racconta ai lettori de "La Provincia".

di Severino Colombo

Sembra una favola, invece è una storia vera quella di Angelo. Una storia che - in tempi di crisi, di operai sui tetti, di colletti bianchi disperati e di manager sequestrati in ufficio - fa bene allo spirito. È la vicenda di un uomo che si è perduto e ritrovato, ma c’è voluto del tempo e non è stato facile. Nato a Pescara, comasco d’adozione, Angelo Starinieri - settant’anni, manager e pubblicitario per importanti aziende (Longines, Breil, Atkinsons…) - al culmine della carriera si è trovato ad affrontare la perdita di un figlio e un’accusa (poi caduta) di corruzione. Angelo Starinieri ha presentato alla libreria Ubik di Como il suo libro "Angelo smarrito" (Sperling & Kupfer, pp. 206, 18 euro).

La sua è, si legge nel sottotitolo, la storia «di un uomo "normale" finito tra i clochard». Come è accaduto?


«Vivevo a Como, in viale Masia, ogni giorno prendevo il treno delle Nord per venire a Milano. Un giorno è andata così: ho perso il treno per tornare a casa e ho capito che avevo bisogno di fermarmi e di non pensare. Mi sono seduto su una panchina e lì sono rimasto. Ho vissuto quattro anni, dal 2004 al 2008, in piazza Cadorna. I ragazzi che "abitavano" lì mi hanno subito accolto con affetto e mi sono stati vicini. Non mi conoscevano ma abbiamo fatto gruppo». Quelli che chiama "ragazzi" sono in realtà uomini tra i 45 e i 65 anni, ognuno con alle spalle una storia di dolore, scelte sbagliate e sfortuna.

Lei oggi vive ancora sulla "sua" panchina, la numero 3 di piazza Cadorna?

«No, quel periodo è finito, ma è stata un’esperienza importante. Non so dire se sia stato un passaggio necessario nella mia vita, di certo è stato utile. E anche se ora abito in una casa non sono cambiato. Sono più maturo. Sono tornato a lavorare, faccio il consulente per alcune aziende del settore food. Ho anche aiutato molti dei "ragazzi" che erano con me: per un certo periodo ho cucinato per loro in una roulotte, poi ho organizzato presentazioni di libri, mostre d’arte e con il ricavato ho comprato tende e beni di prima necessità; a molti sono riuscito a trovare un lavoro».

Perché ha voluto raccontare la sua vicenda?

«Per capire in profondità me stesso. E poi volevo lanciare un messaggio, questo: si può scendere ma si può anche risalire. Avevo già provato a raccontare la mia storia, in stile più giornalistico in "Le lenzuola di cartone" (Excogita), questo è più analitico, senza psicologia né interpretazioni o giudizi. C’è solo la mia storia, con un po’ di fantasia e poesia».

È stato doloroso ricordare e raccontare quei quattro anni?

«No. Né doloroso e neppure liberatorio. Ho dato un colore equilibrato alla sofferenza. I colori mi piacciono molto. Sarà per la mia vena artistica: ho fatto il liceo artistico e poi architettura, ho sempre dipinto, la pittura mi dà serenità. Anche da clochard facevo disegni e quadri. È un modo per reagire, vivere su una panchina ti fa sentire pigro, non ti alzeresti mai e a poco a poco perdi la voglia di fare e di vivere».

Che rapporto aveva con Como?

«Buono, anche se lavorando molto ci passavo poco tempo, ci ho vissuto dieci anni. Ci sono tornato pochi giorni fa per il cambio di residenza. Mi piaceva la città e soprattutto il lungolago, senza muro. Ci andavo ogni settimana a passeggiare. La mia compagna, Rosaria, è comasca; stiamo insieme da 22 anni e anche nei momenti più difficili, quando per proteggerla volevo allontanarla da me, mi è sempre stata vicino».

Come era la sua giornata da clochard?

Ogni mattina mi alzavo alle 5.30 e prendevo tutti i free press davanti alla metropolitana, ero informato su ciò che accadeva nel mondo. Ma per il resto quando sei sulla panchina non ti manca niente e non fai programmi, non puoi permetterti di farli. Lì attorno al piazzale ho avuto la fortuna di trovare persone, baristi, negozianti, che mi davano una mano quando e come potevano».

Durante quel periodo di che cosa sentiva maggiormente il bisogno?

Di non sentirmi invisibile. Spesso basta poco, che un passante non volti la testa dall’altra parte, facendo finta che una persona non esista, ma gli faccia un sorriso. Un sorriso di spessore, di quelli che fanno sentire utili. Chi vive su una panchina, se non ha altri problemi come alcool o droga, è disposto a cambiare, a risollevarsi se trova le motivazioni giuste».

Nel suo caso quale è stata la molla che l’ha fatta risollevare?

«Lo sguardo di una signora perbene mi ha fatto sentire una persona inquietante. Non me lo meritavo, non era giusto e ho deciso di reagire. Si capiva che per lei emarginazione era uguale a criminalità. Ma non è vero, a tutti può capitare di smarrirsi… Non ho mai fatto risse, anzi quando capitavano mi mettevo in mezzo per calmare gli animi, mi è capitato di accompagnare qualcuno all’ospedale e anche dover ricucire qualcun’altro sul posto in tutta fretta per un taglio da lama. Non ho mai neppure chiesto l’elemosina».

Oltre al libro c’è qualche altro progetto nato dalla sua esperienza da clochard?


«Sì, un musical di cui sono supervisore; debutterà a metà dicembre a Milano. Ci saranno molti giovani di talento, mi piace stare con loro, un’orchestra dal vivo, ballerini e pure delle parti video. Poi da gennaio dovrebbe partire la produzione di un film sulla mia storia».

Oggi è felice?

«Sono sereno, la felicità è fatta di momenti che vanno colti al volo».

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