Ardito: «La mia nuova vita, oltre la panchina»

Personaggio «All’Alta Brianza mi hanno affidato l’intero progetto sportivo, la guida della prima squadra, ma anche il settore giovanile».

Sembrava più maturo della sua età già quando arrivò al Como, nel 1999, per via del carattere e dei libri che lo accompagnavano sempre. E poi, negli ultimi anni da giocatore affermato, per via degli occhiali da vista che gli davano un’immagine un po’... professorale. Adesso, seduto alla scrivania dell’Alta Brianza, Andrea Ardito è definitivamente diventato adulto. Sposando un progetto a tutto tondo che, pensate un po’, gli ha fatto dire no a un paio di opportunità di allenare. Andrea, con Giacomo Gattuso, si divide la palma del giocatore più amato dei tifosi del Como, ma degli azzurri ha dovuto fare a meno con dolore. Adesso, però, ecco questa avventura a restituirgli il sorriso.

Ardito all’Alta Brianza, non solo un allenatore.

Mi hanno affidato l’intero progetto sportivo, la guida della prima squadra, ma anche il settore giovanile. Una avventura che mi conquista.

Abbandonata l’idea di essere allenatore nel professionismo?

Mai dire mai. Però cercavo altro. Cercavo un progetto che si basasse sugli ideali, che restituisse ai ragazzi il bello del gioco del calcio. E io, in tanti anni, il bello e il brutto del calcio li ho visti bene. Dunque, so cosa inseguire. Volete un segreto? Mi è arrivata una proposta per una panchina, ci ho pesato... Ma poi ho detto no. Ho capito che quello che inseguivo è un progetto come questo.

Che sarebbe?

Il presidente Claudio Frigerio e i suoi compagni di avventura, vogliono fare qualcosa per il territorio, far diventare il settore giovanile dell’Alta Brianza un punto di riferimento per serietà, metodi, filosofia, cultura, empatia. Io mi vedo qui per vent’anni.

Giornate piene...

Certo. Già adesso, che è estate, passo le giornate qui, in questo ufficio dove ho trovato una foto di una amichevole Como-Alta Brianza in cui ci sono io... . E poi sarà sempre così: in campo con i ragazzi della prima squadra (Eccellenza, ndr), e in ufficio a tracciare un filo che unisca tutte le squadre baby.

Filosofia?

Rispetto degli avversari, serietà, restituzione ai ragazzi della fantasia in campo. Abbiamo anche la consulenza di Samuele Robbioni, il mental coach del Como.

C’è anche un progetto sul campo.

Sì, noi giochiamo a Canzo, ma c’è un progetto sul terreno di Tavernerio dove, dopo la costruzione della tribuna, torneremo a giocare. E potremo allenarci anche sul secondo campo.

Non ti manca il Como?

Sì. Ho ricevuto uno schiaffo in faccia. Quando ho capito che il Como non aveva bisogno di me, non è stato facile digerirlo. Io amo il Como, fa parte della mia vita. Una delusione. Credevo di poter essere la persona giusta per trasferire a chi lavora nel Como un senso di appartenenza. Amen. Ora c’è questa avventura.

Tu e Gattuso occupate lo stesso piedistallo nella storia del Como. Tra i più amati di sempre.

Sono al sesto posto nelle presenze in azzurro. Mica male. Con Jack non ci siamo mai incrociati, ma l’ho sentito quando era stato male la prima volta.

Se dovessi racchiudere in due fotografie la tua vita nel Como, cosa ci sarebbe ritratto?

Beh, la promozione in serie A da una parte, e quella in B con Porro dall’altra. Tra l’altro, la seconda era coincisa con il mio addio al calcio. Il saluto alla gente nella sfida con il Bassano fu indimenticabile. Anche perché, quando tornai per la seconda carriera nel Como, nel 2009, mi ero messo in testa che avrei voluto salutare in uno stadio pieno, come quel Como-Cittadella della promozione in A del 2002, ed è successo davvero..

Deve essere stato difficile scegliere due sole immagini...

Puoi dirlo forte. Se mi penso al Como, mi vedo a Orsenigo. Perché era casa mia, arrivavo sempre per primo, prendevo un caffè alla macchinetta con Soggetti, Carmignani e tutti gli altri dello staff. Quella è la cosa che più mi ricorda il Como. Ma potrei anche dire quella partita a Modena con la neve del 2000 quando ero sul punto di essere ceduto a gennaio, giocai quasi per caso e non uscii più da campo. O la partita la salvezza ai playout con il Carpi in cui feci il difensore centrale; o la partita a Pavia con il tallone in fiamme, quando crollai a terra vinto dal dolore a fine partita. Negli ultimi mesi non camminavo nemmeno più.

Più visto il Como?

Lo scorso anno ho portato i miei figli allo stadio, e li ho portati in curva. Perché la partita va vista lì, l’ho sempre pensato.

Da avversario ti hanno criticato per quell’esultanza al gol della tua Giana al 90’ contro il Como di Banchini...

Già, mi è spiaciuto. Ma alla gente che incrociavo, rispondevo sempre che loro mi conoscevano bene, e in quel momento quel gol era importante per me, non contro il Como. Si sa che quando io sono in campo, sono in battaglia. Ma quell’episodio non ha rovinato nulla.

Hai fatto anche gesti clamorosi: ti sei dimesso quando avevi saputo che nel Como di Felleca c’era Corda; hai rifiutato la panchina del Varese.

Sono sempre me stesso. Quella volta di Corda, più che con lui, ce l’avevo con il fatto che non mi avessero detto nulla. Comparve all’improvviso. Si può iniziare un rapporto di lavoro così?

In bocca al lupo.

Grazie. Sono felice.

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