«Il referendum svizzero
Non fermerà i frontalieri»

Burocrazia all’italiana anche in Canton Ticino. È quanto temono gli imprenditori di oltreconfine il giorno dopo la vittoria del sì al referendum che proponeva di reintrodurre i tetti alla manodopera straniera.

«Probabilmente si tornerà al sistema di una volta» spiega Silvio Tarchini, fondatore del Fox Town di Mendrisio, l’enorme outlet a dieci chilometri dal confine con l’Italia. «Dovremo scrivere a Bellinzona e segnalare che cerchiamo un determinato profilo professionale. Poi attendere che ci dicano quanto già sappiamo, e cioè che non ci sono disoccupati ticinesi con quei requisiti».

Le scartoffie spaventano anche Stefano Modenini, 50 anni, direttore dell’Associazione delle industrie ticinesi (Aiti), la “sorella” della nostra Confindustria. «Nel settore manifatturiero non si registra alcuna esplosione di lavoratori stranieri. Erano 15mila nel 1980, sono 16.500 nel 2014. In termini percentuali il dato è stabile perché sono aumentati i posti di lavoro». Ma allora dove sono tutti questi italiani? «Nel commercio e in qualche settore specializzato come l’informatica, per esempio». E nell’artigianato. «Il problema c’è. Se un’azienda italiana di carpenteria apre una sede qui e paga i fabbri dieci euro all’ora, mette fuori mercato le ditte ticinesi che versano ai dipendenti trenta franchi», spiega Tarchini.

Eppure l’Udc insinua che Tarchini discrimini gli svizzeri. «Ho detto che generalmente i lavoratori italiani sono più flessibili e lo confermo». Il partito che ha lanciato il referendum ha spedito a Mendrisio 180 curricula di disoccupati elvetici. «Sì, li stiamo vagliando. Ma tra loro è molto difficile reperire le figure professionali qualificate di cui abbiamo bisogno».

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