Sacchetti a cuore aperto: «Cantù è la storia»

Intervista «La forza della nostra pallacanestro, quella di essere forti in provincia»

L’esperienza per dire: «Qui bisognerà tutti convincersi che si vincerà con il gruppo, non con le individualità». Il carattere per affermare: «Cantù è storia, io lo so bene. Adesso ci toccherà spiegarlo ai più giovani e a chi verrà». L’umiltà per non nascondersi: «I regolamenti sui tesseramenti dell’A2? Non li conoscevo, mi adeguerò in fretta».

Dal Trentino, dove era al camp del figlio Brian – colonna di Treviglio -, alle spiagge di Ischia («mi aspettavano da anni…»), passando per casa sua, nel Varesotto. Smartphone sempre acceso. Per costruire il futuro. Ripartendo da chi ha tinteggiato a tinte forti passato e presente.

Ben atterrato sul pianeta Cantù, Romeo Sacchetti…

Una realtà che conoscevo e conosco bene. Non è una novità, non c’è bisogno che qualcuno me la spieghi la storia che si è scritta qui, io la so. Eccome. Forse i giovani non lo conoscono, ma c’è talmente tanta gente entusiasta, che ci vorrà un attimo per farlo capire. Una città che vive di basket, te ne accorgi da tante piccole cose.

Il bello della nostra pallacanestro.

Cantù, Varese e Pesaro, tanto per fare degli esempi. La forza della nostra pallacanestro, quella di essere forti in provincia. E accade mentre sempre più gente vorrebbe portare il movimento verso le grandi città, dove ci sono i giornali che possono aiutare nello sviluppo. Ma è in questi centri che si è scritta la storia.

E, a proposito, contento di aver trovato uno come Roberto Allievi?

Non lo conoscevo sotto questo aspetto, finora ci ho parlato poco, ma mi basta la descrizione di chi lo conosce. Sempre e solo benissimo. Un vero signore. Che ha nel Dna un vissuto importante, già da quando faceva il dirigente con il grande papà Aldo. Se è stato scelto, e non a caso, per mettere a posto le cose non è una casualità. Il suo è amore puro.

Come ci si interfaccerà con questi tifosi? Una frangia lacerata, ferita, ma non indebolita dalle ultime due delusioni: la retrocessione e poi la mancata promozione.

La prima cosa che penso è che sia penalizzante non giocare a Cantù. E ve lo dice uno che dal Pianella ci è passato come avversario sia da giocatore sia da allenatore. Se c’è una grande differenza tra la Cantù che conosco e questa è proprio il Pianella. L’anno della retrocessione la storia è ben nota e senza l’accanimento del Covid non sarebbe mai successo. E l’anno scorso la pandemia ci ha messo pure lo zampino, perché perdere uno come Robert Johnson è stata una mazzata incredibile. Possiamo dire che non ci sia un buon rapporto tra questa piazza e il coronavirus.

Però, e le presenze al palazzo nei playoff lo hanno confermato, la voglia di Cantù non manca mai.

E questo è un dato incredibile, dal quale ripartire. L’apporto del pubblico, sia che giochi in casa sia che sia fuori, dà qualcosa di importante. Anche qui, dopo un po’ di titubanza iniziale post restrizioni, si è tornati sugli spalti.

Vista da fuori, Cantù mantiene intatto lo stesso appeal di un tempo o l’immagine si è offuscata?

Dal mio punto di vista non c’è alcun dubbio: è un richiamo fortissimo. E lo porto sempre come esempio. Sui giovani qualcosa giocoforza è cambiato, loro guardano e pensano alla Nba e ad altro. In più le ultime vicende forse qualcosa hanno cambiato. Starà anche a noi rimettere la barra dritta.

E dal passato rispunta anche il suo vissuto con giocatori del calibro di Marzorati, Riva e Della Fiori, giusto per fare dei nomi.

Ci hanno uniti, come gruppo, non solo quelle esperienze che abbiamo vissuto insieme, ma anche i risultati che abbiamo ottenuto con la Nazionale. Siamo stati compagni, è vero, ma anche tante volte avversari. Quante volte contro il Pierlo o con Antonello… E con Beppe Bosa, che non ho mai trovato in azzurro, ma con il quale ho fatto tante battaglie sportive. L’altro giorno, ad esempio, alla festa degli Eagles ho ritrovato Fausto Bargna e la mia prima partita contro Cantù l’ho persa proprio per un suo tiro allo scadere.

E lei c’era al Pianella in quella famosa partita sospesa…

C’ero eccome, arrivò in campo di tutto e ci mandarono a casa. Una semifinale scudetto, che si chiuse lì. Noi di Varese giocammo poi la finale con Pesaro.

Che squadra vedremo, coach?

Ho dovuto per prima cosa scoprire in corsa le diverse regole dell’A2, che proprio non sapevo. Con il fatto che all’andata niente si possa cambiare, nemmeno in caso di infortunio, e con i soli due visti a stagione per gli americani. Meno male che c’è gente preparata, che mi aiuterà.

Una situazione che le piace?

A essere sincero avrei preferito partire un po’ più snello, ed eventualmente intervenire in corsa. Invece, alla luce di queste cose, toccherà subito fare una squadra da dieci giocatori.

Un problema?

No, ma dovremo lavorare anche sulla mentalità e sulle abitudini di chi arriva, oltre a quelli che rimarranno. Ci saranno partite da 20/25 minuti ciascuno e altre nelle quali magari ne basteranno solo 5, ma se l’obiettivo – come è il nostro resta quella di vincere – tutti dovranno farsene una ragione. Tutti allineati, dunque.

Un po’ come la sua Italia all’ultima Olimpiade?

Infatti, io ho proprio in mente quel gioiello. Dodici giocatori, con ognuno che sapeva il proprio ruolo, per un corpo unico e con in testa una cosa sola, uguale per tutti. Mi piacerebbe avviare questo discorso e ricreare quel clima, ma non sarà facile. Lo so bene. Forse la cosa più complicata.

In che senso?

Chiunque arriva, avrà voglia di giocare. E lo capisco. Ma il campo dirà quanto e in quali condizioni. Il gruppo sarà importante. Più del singolo. Specie in una stagione lunghissima, con problemi e contrattempi imponderabili.

Come ovviare a questa situazione?

Tutti vorranno giocare, lo so. Ma tutti devono sapere che saranno una parte importante di un ingranaggio, non l’ingranaggio. E per raggiungere qualcosa di importante bisognerà sapersi mettere a disposizione. Sapere che si fa parte di un gruppo importante. Meglio fare qualcosa, anche piccola, di utile e vincere, che non 25 punti e perdere.

E vi siete già portati avanti, tesserando uno straniero senza bruciare visti.

Scelta saggia. Una delle cose che non sapevo, ma su Rogic non abbiamo mai avuto dubbi: è uno che conosce la pallacanestro, sennò non giocherebbe nella Nazionale croata. Speriamo davvero che possa essere protagonista.

Quale sarà il trucco per vincere?

Non ce ne sono. Partiamo da una squadra diversa e da un allenatore nuovo. Con due stranieri diversi, qualcuno che resterà e volti nuovi: dovrò farmi conoscere e riuscire ad arricchire il gruppo, creandone uno unito. Non si vincerà perché abbiamo un giocatore che segnerà 50 punti, di questo sono sicuro. L’obiettivo, comunque, e lo sapete tutti, sarà quello di fare molto bene.

Come la mettiamo con il ritrovato duello a distanza con suo figlio Brian?

Il problema, e l’ho detto, è la mamma. Che tifa sempre per lui. Ma questa volta ho buone speranze che possa cambiare e tenere un po’ la mia parte. Di sicuro sarà una bella sfida, perché anche loro stanno costruendo un gruppo importante.

Ma è vero che fa seguire i giocatori all’altro suo figlio, Tommaso?

Tommy sta crescendo e ha molto occhio. Me lo sono sempre portato dietro alle Summer League e ha fatto il corso da allenatore.

Con lo staff di Cantù come siamo messi? Tutto a posto?

Ho un vice allenatore come Oldoini che non si tocca, ma sto vedendo anche di portare un assistente dei miei. Ci stiamo lavorando.

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