Se il calcio è metafora
di un paese e del sacro

Durante un talk show sportivo di alcuni anni fa, Arrigo Sacchi, chiamato a confrontare le più forti squadre della storia del calcio italiano disse - di fronte a uno stralunato Sandro Mazzola – che, certo, la Grande Inter aveva segnato un’epoca ma che, insomma, rispetto al Milan di Gullit, Rijkaard e Van Basten non reggeva proprio il confronto.

Apriti cielo. Venne fuori un tale casino che Sacchi venne salvato a stento dalle ire delle folle nerazzurre. Aver osato infangare in diretta tivù il sacro nome degli Immortali, degli Invincibili, degli Irraggiungibili - Mourinho e il Triplete erano ancora là da venire -, l’undici che ha dettato l’agenda dei meravigliosi anni Sessanta, la stagione più florida della grande borghesia che ha fatto l’epopea di Milano, e impresso un marchio di fuoco sulle carni di milioni di tifosi interisti, era apparso come un sacrilegio da lavare con il sangue. Ma Sacchi - che, a pensarci bene, su quel punto aveva ragione - è un genio anche per questo. E infatti ha proseguito a criticare, stroncare e asfaltare qualsiasi squadra, qualsiasi giocatore e, soprattutto, qualsiasi allenatore non corrispondesse alla sua idea di calcio assoluto, fedele metafora di una perfezione che si può applicare su un campo e che combina come in un’equazione matematica la vittoria con il bello, l’agonismo con l’estetica, il gol con il destino.

È così, il personaggio, né cambia stile. Tanto è vero che nei giorni scorsi, scatenando questa volta le ire funeste dei tifosi bianconeri, ha sentenziato che la Juventus di Allegri gioca male e, diciamoci la verità, è un po’ come il Rosenborg, quella squadra norvegese che vince campionati a raffica ma che in Europa non combina mai niente. E pure su questo forse ha ragione ancora lui. E, infine, sono anni che ribadisce e ripete in tutte le salse che in Italia il calcio è una roba che fa schifo, perché qui non esiste cultura sportiva, sana applicazione agonistica che sappia essere cosciente delle regole, dei codici, che non ha rispetto del lavoro svolto sul campo e del valore etico della vittoria e, soprattutto, della sconfitta. Un mondo opaco, doppio, infido e truffaldino che niente ha a che vedere con quello che dovrebbe essere lo sport più bello che c’è. E su questo ha sicurissimamente ragione, perché basta aver frequentato un minimo quell’immondezzaio di papponi, lestofanti, cialtronazzi, ubriachi, giornalisti analfabeti e servi del patron che firma ogni giorno in Questura, traffichini, procuratori con il gessato, i denti d’oro e il mitragliatore e tifosi da osteria che scaricano sulla partita le frustrazioni di vite banalissime per tenerlo a distanza come se fosse l’Anticristo. E in questo modo, capolavoro dei capolavori, è riuscito a rendersi odioso proprio a tutti. Gli rimangono i nostalgici milanisti dei suoi anni trionfali, ma conoscendolo un po’, non si può escludere che non arrivi a prendere a pedate pure loro.

Ma Sacchi sa di aver fatto la storia, perché piaccia o non piaccia esiste un calcio in Italia prima di Sacchi e uno dopo Sacchi, così come, a livello mondiale, ne esiste uno prima dell’Olanda del Settantaquattro e uno dopo, e fa quindi parte di quella categoria di - come definirli? - visionari, profeti, stiliti, guru maniaci ossessivo compulsivi che vedono nel calcio non un ambito professionale dove si concorre per vincere, quanto invece un mezzo plastico per dimostrare l’esistenza della verità. Esiste una verità, anche nel gioco del pallone, e compito del suo sacerdote è dimostrarla in campo, condividerla con i suoi discepoli e farne infine abbeverare le masse.

A questo punto, a uno poco appassionato verrebbe voglia di chiamare l’ambulanza sghignazzando su questi italiani mediobassi che straparlano su ventidue ragazzotti in mutande. Ma, se ci pensate bene, il soggetto di un’ossessione è irrilevante: può essere la filosofia presocratica, la pesca al temolo, i carburatori dei go kart, i cromatismi dei lapislazzuli, il canto dell’otarda delle praterie o quello che volete voi, ciò che conta è quanto quella cosa informi di sé la vita di una persona e, alla fine, le dia un senso. La realizzi. La nobiliti. Non c’è niente che non possa diventare, a suo modo, sacro.

E allora è proprio per questo, così siamo finalmente arrivati al punto, che sono apparse davvero infelici e tristi e gratuite le parole che Allegri ha rivolto a Sacchi dopo le sue critiche - feroci e irridenti, in verità - sulla bruttezza del gioco dei bianconeri: «Gli voglio bene. Ma ormai ha settant’anni…». Ma che argomento è? C’è una cosa più vigliacca dell’attaccare una persona sventolando la carta di identità? Quanto alta deve essere la nostra permalosità per perdere le coordinate del saper stare al mondo? Che c’entra l’età con i contenuti? Con i valori? Con le scommesse vinte e quelle perse? Siamo dentro fino al collo nel peggior renzismo deteriore, nel nuovismo d’accatto, in un rottamazionismo infantile che fa presupporre che il nuovo sia meglio del vecchio a prescindere.

È vero che anche un altro egocentrico spaziale come Mourinho l’aveva già usato contro Ranieri («Ha settant’anni e ha vinto solo due coppette») ma qui c’era piuttosto un approccio americano alla professione del mister: se sei anziano e non hai vinto niente vuol dire che non vali niente. Logica spietata e inaccettabile, ma che almeno si basa su dei dati di fatto. L’età no. L’età è un colpo basso, anche se usato contro un santone sferzante, saccente e petulante. Allegri ha quasi cinquant’anni ed all’apice della carriera, ha già vinto e tanto vincerà ancora perché è davvero molto capace. Però, presto o tardi, arriverà il giorno in cui un trentenne ambizioso e crudele gli dirà che il suo tempo è passato e che è ora di accomodarsi su un’altra panchina. Quella dei giardinetti, dove nell’eterno fluire del tempo e delle cose alla fine finiscono tutti quanti. E quando arriverà quel giorno, sarà un brutto giorno. Soprattutto perché Sacchi sarà comunque nel mito, lui no.

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@DiegoMinonzio

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