Cantù, il tifoso Guzzetti: «Io e il Sciur Aldo»

L’intervista «Un grande feeling, a prima vista. Ci ritrovammo qualche anno dopo gli Anni Sessanta, per la variante per la costruzione del Palasport Pianella»

Personaggio dell’anno. E non poteva essere altrimenti, visti i trascorsi. L’incoronazione al XmasAward di Pallacanestro Cantù non è che una delle tante medaglie di Giuseppe Guzzetti, un illustre tifoso - l’ennesimo - a schierarsi al fianco del nuovo corso del club biancoblù. Lucido nell’analisi, incredibile nei ricordi di luoghi, annate ed eventi.

Per prima cosa, come dobbiamo chiamarla: avvocato, senatore o presidente, dalla Regione Lombardia a Fondazione Cariplo per arrivare ad Acri?

Amico, chiamatemi amico. Niente di più. D’altronde, anch’io mi considero vostro amico, seguendo ogni giorno gli scritti e le cronache.

Parliamo di pallacanestro, una delle grandi passioni. Che è cominciata quando?

Ai tempi del Collegio Ballerini di Seregno, dove ho studiato. Negli ultimi tre anni del Liceo avevamo un professore di ginnastica grande appassionato di basket. Che ricavò, tra un campo di calcio e l’altro, un piccolo spazio per la pallacanestro e nell’ora di lezione facevamo per metà esercizi e per metà partita. Lì realizzai i miei primi canestri.

E poi?

Poi fu naturale diventare tifoso di Cantù, che però, con il Parini non più omologato, fu costretta e emigrare a Brescia, quindi scomodissima da seguire. Nel frattempo, però, sulla mia strada si palesò Aldo Allievi.

Non un personaggio qualunque, quindi...

Il sciur Aldo era una figura poliedrica. Imprenditore con la sua attività di acqua, bevande, vini e liquori. Sportivo e appassionato, tanto da portare una piccola cittadina come Cantù a competere con Milano, che aveva due squadre, con Bologna, che era culla del basket, con Varese in mano a Borghi e così via, per una sorta di miracolo non solo agonistico. E poi aveva quel carattere sociale che mi conquistò, grazie alla Fondazione Eleonora e Lidia, che ora porta avanti il figlio Roberto, per gravi disabilità e a quella sensibilità che lo ha sempre portato a essere dalla parte degli ultimi e di coloro che avevano bisogno di supporto. Mi ricordo l’impegno suo e quello di Gianni Corsolini con la moglie Mara.

Una sorta di folgorazione?

Diciamo un grande feeling, a prima vista. Ci ritrovammo qualche anno dopo gli Anni Sessanta, quando ci fu bisogno di dare l’impulso decisivo alla variante del Comune di Cucciago per la costruzione del Palasport Pianella e quindi riportare a casa la Pallacanestro Cantù dopo l’esilio bresciano. Allora ero presidente in Regione della Commissione Urbanistica e lavorammo molto bene fianco a fianco.

Da lì in avanti fu un continuo ritrovarsi.

Cominciai a frequentare assiduamente il palazzetto. Da tifoso e - lo ammetto - spesso dimenticandomi di essere senatore, politico o presidente. Memorabile quella volta in cui, dopo una reprimenda ai due arbitri, il presidente federale, che era seduto vicino, dichiarò alla Gazzetta che a Cantù il numero uno della Regione era stato molto vivace.

I ricordi più nitidi?

Belli e brutti.

Cominciamo da quelli belli.

Due. Grenoble e Madrid. Il più bello è Grenoble, finale di Coppa dei Campioni tra due squadre lombarde, Ford Cantù e Billy Milano. Io, presidente della Regione, premiai prima della gara i due presidenti con una targa. Poi andai a sedermi di fianco ad Allievi. Finale incredibile, con noi a più sei, le due palle rubate da Mike “Arsenio Lupin” D’Antoni, il +1 e il loro tiro, discusso, sbagliato sulla sirena. Mi ricordo la grande nevicata, la cene delle delegazioni e delle autorità dopo la gara e la festa nell’hotel di Cantù.

E Madrid?

Finale di Coppa Korac, 1991, loro grandi favoriti e dati già per vincitori. Noi perfetti all’andata in Spagna con vittoria di due. Poi il ritorno al Pianella e un primo tempo da dimenticare, sotto di una vita. Mi ricordo di essermi alzato in piedi a gridare: “Difesa, difesa”. Il palazzetto s’infiammò ancor di più. Rimonta incredibile e altro successo di misura al supplementare.

Passiamo a quelli brutti, allora.

Non c’è dubbio. La precedente finale di Korac con il Partizan Belgrado. Avevamo i biglietti, ma non c’era modo di volare sulla Jugoslavia. Chiesi aiuto all’amico Arvedi, imprenditore delle acciaio, che ci presto l’aereo privato. Arrivammo là, niente da fare per far valere i nostri posti. Quantomeno la fortuna che ci spostarono dietro la panchina di Cantù, per un’esperienza unica, a parte una batteria di tamburi da farti impazzire. Pagammo i postumi dell’infortunio di Benson e la loro voglia di vincere in casa.

Ma da queste parti, e lei lo sa bene, è già tempo di guardare avanti.

Ecco perché applaudo al nuovo corso. A chi è stato capace, con le qualità imprenditoriali tutte canturine e lombarde, di tirarci fuori dalla parentesi russa con Gerasimenko, evitare il fallimento e lo spostamento altrove del titolo sportivo, sobbarcarsi la montagna di debiti e garantire un domani a questa magnifica piazza.

Non è stato facile.

Lo so, ma hanno contribuito in tanti. Sono venute fuori l’anima, la passione e il voler sentire la squadra come proprietà del territorio. I risultati si sono visti da subito, dall’idea originaria di coagulare le forze intorno al grande progetto di palasport di Davide Marson alla squadra di imprenditori ancora oggi guidata da Sergio Paparelli, passando per l’opera di un ad come Andrea Mauri, che è una polizza di assicurazione per il futuro.

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