Il viaggio sul Lario
che ispirò Manzoni

Ristampato il "Larius", volume pubblicato nel 1617 dall'erudito Sigismondo Boldoni di Bellano. Le sue lettere e i suoi scritti aiutarono Manzoni a ricostruire l'ambiente lariano seicentesco in "Fermo e Lucia" e nei "Promessi sposi".

di Franco Minonzio

La breve esistenza di Sigismondo Boldoni (1597-1630), stretta tra private angustie e ambiziosi progetti di scrittura, si potrebbe raccontare partendo dal 1629. É di quel medesimo anno la calata in Italia dei lanzichenecchi, che seminarono ovunque distruzione e terrore spingendosi fino a Bellano: Boldoni ne fu acuto testimone in alcune lettere, cui - come è ormai accertato dopo i lavori di Carlo Gottifredi - attinse Manzoni nella stesura dei capitoli XXVIII, XXX-XXXII dei "Promessi sposi": del resto, è Manzoni stesso ad riconoscere (Fermo e Lucia, IV, 1) il loro valore documentario. Morì di peste a Pavia, nel 1630, mentre si apprestava a trasferirsi a Padova.
Di questa esistenza, breve e paradigmatica del "secolo di ferro", esistenza in cui l’irrequietudine fisica è metafora d’irrequietudine intellettuale, è riflesso la stessa tormentata incompiutezza dell’opera di Boldoni: fa eccezione, insieme a poche altre cose, il giovanile "Larius", iniziato su sollecitazione del padre e pubblicato nel 1617 a Padova, presso l’editore Giovanni Battista Martini.
Analogamente alla "Descriptio Larii Lacus" di Paolo Giovio, da Boldoni assunta a modello, anche il "Larius" del giovane Sigismondo è scritto nella forma di un periplo lacustre, solo mutando luogo di partenza e d’arrivo. La navigazione muove dal Forte di Fuentes e, seguendo la sponda orientale del Lario, tocca, per limitarsi a indicare le tappe più rilevanti, Colico, Bellano, Perledo, Varenna, Fiume Latte, Lierna, Olcio, Mandello, Lecco. Da qui, dopo avere seguito per qualche tratto il corso dell’Adda, la direzione del viaggio si inverte:  Malgrate, Paré, Vassena, Limonta, Bellagio, Loppia, Lezzeno, Nesso, la fonte Pliniana, Torno, Blevio, Como. Dopo Borgovico, e l’evocazione dolorosa di ciò che resta del Museo di Giovio, la descrizione risale lungo l’opposto litorale toccando Moltrasio, Torriggia, Brienno, Argegno, Isola Comacina, Lenno, Tremezzo, Cadenabbia, Menaggio, Acquaseria, Rezzonico, Dongo, Gravedona, Domaso, Gera, Sorico, Capolago. Meno "scientifico", rispetto al trattato gioviano, poiché meno ispirato ad un intento dichiaratamente corografico, il "Larius" di Boldoni è  un’opera magnetica e serena, scritta con la freschezza descrittiva di chi vede luoghi e cose con una familiarità senza tedio, non deformata dagli schemi classicistici.
É sorprendente come un giovane men che diciottenne sappia fondere  descrizione e reinvenzione del paesaggio lariano in una forma sapientemente chiaroscurale: di ciascuno di questi, e di altri minori, insediamenti lariani, compone una immagine aderente alla loro storica realtà  agli inizi del XVII secolo, ma tuttavia dotandola di una fascinosa carica allusiva, di una fortissima capacità di evocazione. Nella cristallina trasparenza di una fonte, che lascia quasi contare i sassi sul fondo, nelle correnti d’aria che percorrono le cavità dei monti, nelle opacità boschive di un promontario, si riflette uno sguardo fresco, nuovo, capace di provare stupore dinnanzi alle meraviglie di una natura artefice (natura opifex la chiama Boldoni, riecheggiando la natura artifex delle sue fonti antiche, Vitruvio e Plinio), natura pensata come un organismo vivente. In questa capacità di provare, e di destare, "maraviglia" Boldoni è in piena sintonia con le esigenze espressive dal barocco. E tuttavia, descrivendo gli insediamenti sulle rive del Lario, una attenzione particolare è rivolta all’attività edificatoria (porti, chiese, soprattutto ville) che ha rimodellato le coste conferendo ad esse quasi una "seconda natura": tra di esse spiccano la descrizione delle due ville di Ercole Sfondrati: la "Capuana" di Fiumelatte e la Villa Sfondrati di Bellagio, attuale Villa Serbelloni, e quella, puntigliosissima, di Palazzo Gallio di Gravedona. E di Como, "regina del Lario", Boldoni ci consegna, come è prevedibile non trattandosi di un comense, una descrizione assai più analitica di quella gioviana: pagine tra le quali spiccano quelle dedicate al Duomo di Como, così esatte da spingere Domenico Ceresola ad includerle, in traduzione italiana, nella sua "Storia della Cattedrale di Como" (Como, Ostinelli, 1821). Le ultime pagine del Lario sono dedicate ad una concisa antropologia delle genti del Lario, una classificazione dei nomi dei luoghi, che distingue i toponimi in greci, etruschi e latini, ed una breve ricognizione delle più significative figure intellettuali lariane tra ’500 e ’600.
Il Lario boldoniano frutto di una meditata costruzione è, come qualche volta le opere prime, scritto in un felice stato di grazia, in un stile latino ricco di echi, rivelando nel giovane autore un talento espressivo di valore assoluto, rimasto confuso nella schiera affoltante degli scrittori barocchi di complemento, poligrafi senza ardimento compositivo: ma oggi i tempi sono maturi per l’avvio di una riscoperta critica, capace di sottrarlo all’asfissiante dimensione della piccola gloria locale, del cantore di una piccola patria.
Aveva distintamente percepito la sua statura Alessandro Manzoni che, come si disse, si avvalse, per il romanzo, della testimonianza delle lettere boldoniane sulla discesa dei lanzichenecchi nel 1629, conosciute per lettura diretta, ma forse messo sull’avviso da una delle  Lettere lariane di Giambattista Giovio a Saverio Bettinelli (è la XXII): «Sigismondo Boldoni scrittore riputatissimo ai suoi tempi, e che forse avrebbe acquistato un nome più esteso e più autorevole anche presso ai posteri se non fosse morto all’uscire della giovinezza, e sopra tutto se quei pochi anni gli avesse vissuti in un secolo, in cui fosse stato possibile concepire nuove idee d’una precisione e d’una importanza perpetua, e per esporle, trovare quello stile che vive» ("Fermo e Lucia", IV, 1).

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