Cultura e Spettacoli
Giovedì 10 Dicembre 2009
"Ulisse? Intraducibile"
Così Carlo Linati
disse no a James Joyce
Nelle lettere del grande autore irlandese allo scrittore comasco
l'inizio e lo sviluppo di una straordinaria alleanza letteraria
Ricorre in questi giorni il 60° anniversario della morte di Carlo Linati. Per l’occasione Vincenzo Guarracino parla delle lettere spedite da James Joyce allo scrittore comasco, che ne fu il traduttore.
Dear Sir: I was given your address at the Italian bookshop here...» («Egregio signore, mi hanno dato il suo indirizzo alla Libreria Italiana di qui»). È l’inizio della prima delle nove lettere inviate da un mittente d’eccezione, James Joyce, all’indirizzo del "tenente" della 39ª Compagnia Telegrafisti Carlo Linati di stanza a Breganze, in Veneto, e reca la data «Zurigo, 31 ottobre 1918».
Fresco di gloria letteraria per aver tradotto non senza efficacia e con un certo successo opere degli irlandesi Synge e Yeats, Linati si vede così tra il lusco e il brusco rivolgere l’invito a cimentarsi con la traduzione del romanzo "A portrait of the artist as a young man" ("Ritratto dell’artista da giovane", 1916), dal forte sapore autobiografico, in cui si indagano e rappresentano le pulsioni alla scrittura. È l’inizio di un fitto scambio epistolare che, dopo un’iniziale titubanza del comasco ad accollarsi un siffatto oneroso incarico, si protrarrà almeno fino alla fine di settembre del ’20, concretizzandosi a poco a poco in un rapporto amichevole destinato a durare fino alla morte dello scrittore irlandese nel 1941.
Interessante in questa prima lettera è il fatto che Joyce, pur confessandosi ignorante dell’opera di Linati, riveli che a incoraggiarlo a questo passo sia stata la sua scelta coraggiosa di presentare al pubblico italiano autori non certo facili come Synge e Yeats, «anziché i romanzi melensi che divora il pubblico inglese».
Dalla lettera successiva di due mesi più tardi, in data 10 dicembre, da Trieste, apprendiamo che, invece del Portrait (più tardi tradotto e pubblicato col titolo di "Stefano eroe", 1950), Linati sta pensando di accingersi a tradurre la commedia "Exiles", che da poco è stata rappresentato a Monaco, un vero e proprio "battesimo di fuoco", che si è tradotto «in una serata alquanto burrascosa», a causa forse di fraintendimenti da parte del pubblico. È per questo, per premunirsi risolvendo per tempo eventuali problemi di interpretazione e di resa, che l’autore gli chiede di poterlo incontrare? Certo è che nella successiva del 19 dicembre, venendo incontro a una precisa richiesta di Linati, Joyce racconta le vicissitudini sue e dei suoi libri: come lui, dopo il trasferimento a Trieste, dove attualmente risiede dal 1904, sia stato costretto nel ’15 a recarsi a Zurigo a causa della guerra ma anche per motivi di salute (un’operazione di iridotomia) soggiornandovi fino al ’18, e come per i suoi libri abbia patito non pochi guai, tra ostracismi, censure e sequestri ("Exiles" è stato addirittura giudicato "osceno" da Bernard Shaw). Al che, Linati, che nel frattempo ha preso accordi con l’editore milanese Mino Facchi per la pubblicazione dell’opera, all’inizio di marzo, lo contatta di nuovo per avere «un’interpretazione esatta di alcuni passi che gli restano dubbi e oscuri». La lista inviata delle richieste è abbastanza lunga - se ne scusa, Linati - ma è una riprova ulteriore della «scrupolosità del traduttore» alle prese con un autore esigente e difficile, come il «caro signor Joyce». In realtà, la commedia è già sul punto di essere pubblicata sulla rivista "Convegno" (n.1-2), col titolo "Esiliati", titolo che non piace affatto all’autore, in sostituzione del quale nella lettera dell’8 marzo, assieme «con correzioni e confermazioni dei punti minori», propone "Esuli", con tutta una serie di considerazioni, non ultimo il fatto che l’esilio lui l’intende come «the condition of being exiled» («lo stato di essere esuli»), non come una condanna. Diversi anni più tardi, nel ’44, è con questo stesso titolo, Esuli, che sarà pubblicata dalla casa editrice milanese Rosa e Ballo.
Il lavoro di revisione e correzione, intanto, va avanti come apprendiamo dalla lettera del 2 maggio, in cui Joyce comunica di aver inviato, corretto in buona parte "a matita" («l’inchiostro e la carta andando male d’accordo»), il primo atto della commedia, lasciando stare le omissioni che «ci sono qua e là».
Le successive quattro lettere, le ultime del carteggio, sono interessanti, oltre che per quel che concerne lo stato di avanzamento della traduzione della commedia, soprattutto per le loro aperture al futuro.
Dalla lettera dell’11 maggio, infatti, assieme al fatto che Joyce aspetta per rivedere la versione del terzo atto della commedia, apprendiamo che per il comasco cominciano ad aprirsi prospettive prima davvero impensate. Emerge che, addirittura, Ezra Pound è interessato ad avere per la rivista americana "Dial" un articolo sull’attuale situazione letteraria italiana. Linati, l’articolo si affretterà manco a dirlo a prepararlo e Pound ne resterà «molto contento» («seems very pleased»), come Joyce lo informerà nella lettera del 6 settembre.
È insomma davvero l’inizio di una nuova era per Linati: attraverso Pound, è il contatto con il mondo della cultura anglosassone che si apre, con Lawrence ed Hemingway soprattutto, un mondo inimmaginabile per uno vissuto nella piccola patria comasco-milanese, in un’Italia inquietamente autarchica anche dal punto di vista culturale.
E un’altra notizia, poi, non meno importante, nella lettera del 21 settembre: Joyce, dopo aver già anticipato il 6 settembre che sta lavorando «come un ergastolano, un somaro, una bestia» all’Ulisse («L’episodio di Circe mi ha ridotto bestia anche me»), comunica di aver inviato all’amico «un sunto-chiave-scheletro-schema» del suo «maledettissimo romanzaccione», chiedendogli in sostanza di darci una scorsa e provarsi a tradurne «qualche capitolo non troppo irto di difficoltà». Come è noto, l’impresa, dopo qualche assaggio, non andrà in porto. «Di una difficoltà stragrande per non dire insormontabile», commenterà molti anni più tardi, nel ’41. Troppe «gherminelle linguistiche», e soprattutto «quell’humour rapinoso e canzonatore di natura tutta irlandese», inadatto e stonato per una lingua come la nostra «così chiara, nobile e musicale». Un’occasione, ahimè, perduta!
Vincenzo Guarracino
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