Cultura e Spettacoli
Mercoledì 26 Maggio 2010
Tutta la verità su Zeret
inferno italiano in Etiopia
Lo storico comasco Matteo Dominioni ha curato il memoriale di un militare che lanciò i gas arsina e yprite nel 1937. In quella repressione contro la popolazione locale morirono 11 mila persone.
Ad usare materialmente i gas proibiti, arsina e yprite, all'imbocco della caverna di Zeret, durante la guerra in Etiopia - uno degli episodi più agghiaccianti di quella campagna - fu un sergente maggiore del plotone chimico della divisione Granatieri di Savoia, Alessandro Boaglio. Tornato in Italia dopo la prigionia in un campo inglese, il sottufficiale non riuscì mai a dimenticare l'orrore di quella giornata e cercò di trasmetterne la memoria rielaborando un suo diario in un quadernetto di memorie coperto di una fitta scrittura a mano. Ritrovato da suo figlio, Giovanni, quel documento di eccezionale interesse è stato trasmesso a un giovane storico, Matteo Dominioni, che con Giovanni Boaglio ne ha ora curato la pubblicazione.
Nell'introduzione al volume, Matteo Dominioni, allievo di Angelo del Boca e autore di "Lo sfascio dell'impero" (studio sul colonialismo italiano in Etiopia, nel quale già venivano approfondite le circostanze e le modalità della strage di Zeret) confessa essergli toccata in sorte una testimonianza unica, invano inseguita per tanto tempo da tanti storici e di non aver mai letto, malgrado anni di ricerche sull'occupazione militare dell'Etiopia, un documento «così crudo» di parte italiana. Sono giudizi che la lettura del diario consente a chiunque di ritenere non iperbolici. Anche se in realtà, accanto alla franca sottolineatura di episodi che gettano una luce tragica sull'occupazione italiana - oltre a quello, centrale, di Zeret, va ricordata almeno la durissima repressione messa in atto a Addis Abeba nel febbraio del '37 dopo l'attentato a Rodolfo Graziani (<+G_NERO>nella foto tonda<+G_TONDO>), con lo sconvolgente bilancio di undicimila vittime - il memoriale offre anche il resoconto di una lunga serie di vicende personali, minute, quotidiane, e di scarso rilievo politico-militare, ma di innegabile interesse umano, preziose per capire l'approccio a una realtà così diversa da quella italiana da parte di un giovane soldato.
Dominioni nota esplicitamente come, al contrario di altri, Boaglio non ecceda in esotismo gratuito, ma preferisca lasciarsi andare ogni tanto a qualche notazione bonariamente ironica, che non di rado mostra tutto il distacco fra la retorica ufficiale e le valutazioni quotidiane, personali, degli italiani in colonia. Così, il giovane sottufficiale parla ad esempio di resistenti etiopi visti penzolare dalla forca non come ribelli e banditi, ma come di «eroi dell'altra sponda». Del resto, la realtà appare sotto una serie di altri aspetti assai diversa da come la si vorrebbe presentare. La "barbarie" degli etiopi agli occhi di Boaglio è un'altra cultura, non priva di attrattiva, che egli si dispone ad esplorare frequentando i tucul e cercando addirittura di imparare qualche parola della lingua locale, per entrare in più diretta sintonia con quelli che avrebbero dovuto essere semplicemente i nemici ormai vinti. Lo stesso atteggiamento il sergente maggiore lo riserva ai rapporti di natura più intima con le indigene. Come rileva Dominioni, «l'autore (…) descrive tutta una serie di episodi in contraddizione palese tra quanto auspicato dal regime e invece quanto avveniva nella realtà (…). D'altronde alle autorità del regime non sarebbe stato possibile reprimere un fenomeno di massa e controllare decine di migliaia di giovani. Nei fatti, la legislazione razziale servì per mostrare un volto duro e integerrimo del fascismo ma la cosa più grave è che divenne un deterrente per esercitare un ricatto nei confronti di un vasto numero di persone». Ma il cuore vero del memoriale è la grotta di Zeret. «È - scrive l'autore nell'introduzione - un documento straordinario su una delle più efferate stragi avvenute in Etiopia; è una testimonianza unica nella storia coloniale. Non esistono da parte italiana descrizioni così lucide su una strage. Si consideri inoltre che a scrivere è uno degli esecutori e che egli descrive minuziosamente (...) l'impiego degli aggressivi chimici». In questo capitolo non c'è più traccia dei colori e dei profumi di un Paese esotico, o della sua cultura e delle sue tradizioni, o della sua lingua cantante. C'è solo una cappa pesante di orrore e la consapevolezza dolorosa di esserne gli artefici. L'uso dell'yprite è tale che lo stesso Boaglio ne viene contaminato e viene riconosciuto invalido di guerra. Ma chi è nella grotta si trova in una spaventosa trappola dove l'alternativa è quella di soffocare per l'arsina che la invade o uscire per finire sull'yprite o centrati dalle pallottole degli italiani. La scena da inferno dantesco si conclude tuttavia con una nota di speranza: in mezzo al gas, ai cadaveri, alle teste mozzate, al sangue, una giovane dà alla luce un bambino. È la rivincita della vita sulla follia devastante dell'uomo.
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