Nel dubbio, io mi butto sul vocabolario. Non letteralmente, sarebbe curioso e anche un poco imbarazzante, ma nel modo tradizionale: aprendolo e consultandolo. Oggi lo si può fare anche online, con il vantaggio che è possibile copiare e incollare la definizione cercata, come nel caso qui sotto:
«tabù (anche, ma solo nel sign. proprio e nell’uso scient., tabu) s. m. e agg.– 1. s. m. a. In etnologia e in storia delle religioni, interdizione o divieto sacrale di avere contatto con determinate persone, di frequentare certi luoghi, di cibarsi di alcuni alimenti, di pronunciare determinate parole, e sim., imposti per motivi di rispetto, per ragioni rituali, igieniche, di decenza o per altri motivi (...). In psicanalisi, il termine indica ogni atto proibito, oggetto intoccabile, pensiero non ammissibile alla coscienza, come nel caso emblematico dell’incesto» .
Interessante, no? Se si trascura la definizione, la parola “tabù” assume significati o troppo cupi o troppo sbarazzini: tabù può essere indifferentemente qualcosa di orripilante, come per esempio il cannibalismo, oppure una dichiarazione smisurata: «Sono a dieta, la pastasciutta per me è tabù».
Facendoci forza della definizione di cui sopra - copiata dalla Treccani - potremmo tentare un’applicazione più ragionevole del termine: “tabù” indica un limite dell’azione e della coscienza. Non perché alzi un argine arbitrario alla libertà, ma perché il superamento di tale argine comporterebbe un danno oggettivo: quello che diminuisce tanto l’individuo quanto la società.
Nella mia testa - e certo lì dentro soltanto - il tabù ha il suono del campanello che, un tempo, avvertiva chi batteva a macchina della necessità di andare a capo. Per me il tabù è proprio così: il segnale che il limite è superato, meglio tornare indietro e scrivere una nuova riga.
Se questo campanello fosse installato di serie in tutti gli umani non avremmo letto le cose che in questi giorni abbiamo letto, in particolare sui social network. E non perché il campanello-tabù ci costringa al pensiero unico: tutt’altro. Lo spettro delle opinioni rimarrebbe esattamente della stessa ampiezza: il campanello si limiterebbe a registrare gli scivolamenti vergognosi della libertà di espressione, quello slittare della frizione mentale per cui, pensando e scrivendo certe cose, facciamo vergogna per primi a noi stessi e poi al genere umano tutto. E, come accennato, lo danneggiamo: perché diminuiamo la sua e la nostra dignità, miniamo l’intelligenza collettiva e disperdiamo quella già ridottissima disponibilità di umorismo grazie alla quale ci è consentito di sopravvivere alla nostra stessa ineluttabile ignominia.
Così, per fare un esempio, non avremmo letto quel commento, espresso online da una signora, temo in una buona fede più agghiacciante di qualunque premeditata malignità, secondo il quale i bimbi morti in mare, se sbarcati in Italia, sarebbero senz’altro diventati clandestini, stupratori e spacciatori e non necessariamente in quest’ordine. Un bel campanello avrebbe suonato nella testa della signora per avvertirla che si può essere contro l’immigrazione, contro la globalizzazione e, piacendo, perfino furibondi a vanvera ventiquattro ore su ventiquattro. Ma disumani mai.
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