Molti di voi avranno sperimentato, nel corso dell’esistenza, la paura della morte. Non c’è di che preoccuparsi: la paura di morire è una conseguenza della vita. Ironicamente, essere vivi comporta la paura di non esserlo più. Questo dovrebbe dirci qualcosa sul valore della vita perché, a quanto è dato sapere, essere morti non comporta il timore di essere vivi.
Comunque sia, siamo vivi prima di essere morti e, pur essendo vivi, sprechiamo tempo a temere di diventare morti. Come possiamo rimediare a questo evidente corto circuito esistenziale? Secondo uno studio portato a termine da un team di psicologi dell’Università di Amsterdam, sarebbe sufficiente abbracciare un orsetto di peluche.
Premessa al commento: non risulta che nell’ateneo di Amsterdam la circolazione della cannabis sia libera come in altri ambienti della città. La conclusione proposta dagli psicologi va dunque considerata sobria e ponderata.
Esaminato più da vicino, lo studio olandese suggerisce che l’abbraccio a un orso di peluche (ma anche panda, leprotti e giraffe possono fare egregiamente la loro parte) è un ottimo surrogato del “contatto umano” e che il “contatto umano” medesimo si rivela, alla sperimentazione e all’osservazione, un rimedio efficace contro le paure esistenziali più profonde e, per così dire, antiche. Un abbraccio, una mano sulla spalla, la gentile pressione su un braccio riescono a fare miracoli: allontanano la sensazione di smarrimento dell’individuo davanti al cieco infinito, riportandolo, con gentilezza, nel consesso umano dove, più che le gioie, dà sollievo condividere i dolori.
L’idea di base è attraente: tocchiamoci e abbracciamoci a più non posso (anche se io, al riguardo, sarei piuttosto selettivo) e, laddove non sia possibile, stropicciamo un bell’orsacchiotto. In ogni caso, restituiamo valore e apprezzamento al contatto umano. Anche se di questi tempi una mano sul braccio potrebbe significare soltanto: «Scusi, guardi che c’è da pagare la seconda rata dell’Imu».
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