Addio, tabloid

Leggo con una punta di tristezza del ciclone che ha investito il giornalismo popolare inglese. Dal mega-editore Rupert Murdoch al cronista di strada, l’armata Brancaleone del «non è vero ma lo scrivo lo stesso» si è dispersa in mille rivoli: alcuni son finiti in tribunale, molti (non l’editore) sono rimasti senza posto di lavoro e tutti, senza eccezioni, hanno rimediato una figura da cioccolattai («a chocolate impression» come si dice in lingua).
Le accuse sono impressionanti: intercettazioni telefoniche illegali, gravissime interferenze con indagini della magistratura, ripetuta pubblicazione delle foto di Elton John mentre fa il bagno. Non c’è dubbio che i giornalisti dei tabloid - su tutti, «News of the world» di cui Murdoch ha annunciato l’eutanasia - se la siano cercata: hanno violato la privacy di molti cittadini, e l’hanno pure derisa, sporcata, messa in vendita a qualunque offerente, non solo il migliore.
Ciò premesso, non posso nascondere un pizzico di nostalgia per la fine di un giornalismo in cui non mi riconosco ma che, a saper stare al gioco, era divertente. Quotidiani come il «Sun» raccontavano una cronaca iper-realista, oscena, ghiandolare e palesemente risibile. In qualche modo, perfettamente adatta al controllato quotidiano degli inglesi: un buffonesco sfogo alle loro frustrazioni. Era un gioco, in fondo, pesante ma scoperto. Nessuno dei tabloid di Fleet Street pretendeva di presentare seriamente le notizie: si limitava a offrire al lettore l’occasione di passare qualche ora in privata compagnia dei suoi bassi istinti.

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