Ho come l’impressione che stiamo per perdere una vecchia amica: la tristezza. Non perché, come un popolo in marcia verso la luce, lasceremo le ombre della malinconia per entrare nella luce della felicità. Piuttosto, a breve, la tristezza non verrà più tollerata. Sarà come uno di quei comportamenti diventati tabù, atteggiamenti un tempo comuni ma ora considerati, spesso a ragion veduta, sintomo di peste sociale, come fumare al chiuso o confessare di aver votato per Pietro Longo.
La ragione è quella che, negli ultimi tempi, spiega tutto e giustifica tutto: l’economia. La tristezza, denuncia un recente studio, inibisce la nostra razionalità, spingendoci a comportamenti che, alla lunga, non solo fanno male a noi stessi ma anche alla comunità. Tipico esempio è il mutato atteggiamento nei confronti del cibo assunto da chi si ritrova con un piede, o due, nella depressione: bisognoso di gratificazioni facili e istantanee, ricorre alle patatine piuttosto che alla dieta, alla pancetta affumicata piuttosto che al tofu o all’insalata. Oppure, se le concessioni alla gola non bastano a soddisfarlo, troverà il modo di concedersi un regalo, o due. Magari anche tre o quattro. Risultato: si ritroverà obeso e indebitato. E un Paese pieno di gente obesa e indebitata è un Paese che avrà un’economia zoppicante e una Sanità affollata e pertanto scadente.
Non è che il ragionamento manchi di logica e i fatti riportati nello studio sono pressoché inconfutabili. A preoccupare è la risposta che vorremo dare al problema. Il primato indiscusso che oggi viene tributato all’economia indurrà a vietare la tristezza come comportamento antisociale, oppure a tassarla come bene di lusso, a marchiarla come una devianza frutto dell’egoismo più profondo. «La tristezza distorce la vostra razionalità» dice il titolo dello studio. Troveremo la forza di rispondere che la loro razionalità disturba la nostra tristezza?
La ragione è quella che, negli ultimi tempi, spiega tutto e giustifica tutto: l’economia. La tristezza, denuncia un recente studio, inibisce la nostra razionalità, spingendoci a comportamenti che, alla lunga, non solo fanno male a noi stessi ma anche alla comunità. Tipico esempio è il mutato atteggiamento nei confronti del cibo assunto da chi si ritrova con un piede, o due, nella depressione: bisognoso di gratificazioni facili e istantanee, ricorre alle patatine piuttosto che alla dieta, alla pancetta affumicata piuttosto che al tofu o all’insalata. Oppure, se le concessioni alla gola non bastano a soddisfarlo, troverà il modo di concedersi un regalo, o due. Magari anche tre o quattro. Risultato: si ritroverà obeso e indebitato. E un Paese pieno di gente obesa e indebitata è un Paese che avrà un’economia zoppicante e una Sanità affollata e pertanto scadente.
Non è che il ragionamento manchi di logica e i fatti riportati nello studio sono pressoché inconfutabili. A preoccupare è la risposta che vorremo dare al problema. Il primato indiscusso che oggi viene tributato all’economia indurrà a vietare la tristezza come comportamento antisociale, oppure a tassarla come bene di lusso, a marchiarla come una devianza frutto dell’egoismo più profondo. «La tristezza distorce la vostra razionalità» dice il titolo dello studio. Troveremo la forza di rispondere che la loro razionalità disturba la nostra tristezza?
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