Il mondo dell’informazione, ne avrete avuto sentore, si sta giocando molto del suo futuro. Il motivo è presto spiegato: la diffusione capillare della Rete ha aperto infiniti canali comunicativi che bypassano quelli gestiti dai media tradizionali. Questo ha portato a una sorta di deprezzamento delle notizie: le informazioni circolano libere, perché qualcuno dovrebbe pagare per ottenerle?
La ragione più solida che si oppone al bengodi delle notizie senza argini e a costo zero è che presso tali fonti improvvisate la credibilità è spesso prossima allo zero. Punto di forza dei media tradizionali è (o sarebbe) il rispetto della deontologia professionale: prima di pubblicare un fatto, lo si verifica. Questa differenza ha ancora il suo peso: per quanto tanti critichino la stampa, la accusino spesso di asservimento e di autocensura, di fronte a fatti che si ha necessità di sapere accurati e precisi è a essa che la maggior parte delle persone ancora si rivolge.
Ciò che la stampa non dovrebbe fare, a questo punto, è cedere alla tentazione di assomigliare all’ormai inarrestabile quanto petulante chiacchiericcio pseudo-informativo in corso sulla Rete. Al contrario, essa dovrebbe difendere con puntiglio la sua reputazione, persistente anche se non pubblicamente riconosciuta, di autorevolezza.
Invece, che cosa accade? Che le testate più autorevoli e perfino burbanzose si abbandonino al pressapochismo. Esempio concreto: la London Review of Books pubblica un lungo articolo in cui il giornalista premio Pulitzer Seymour Hersh sostiene che gli Usa hanno “venduto” al mondo un falso resoconto dell’uccisione di Osama bin Laden. Il giorno dopo, oltre alle smentite di prammatica, Hersh si becca però un’accusa grave: quella di plagio. Avrebbe copiato un articolo pubblicato nel 2011 da un blogger. L’uomo che accusa gli Usa di aver mentito sarebbe a sua volta un mentitore. E così la verità finisce per perdersi della Rete, stingersi sulla stampa e diventare un elemento trascurabile, perché irraggiungibile, delle nostre vite.
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