Quando leggiamo l'editoriale del New York Times – come tutti facciamo – abbiamo a volte ragione di indignarci, oppure di riflettere, o in alcuni casi perfino di pensare, ma di recente ci è toccato vergognarci. A. O. Scott, un critico cinematografico, ha sfruttato la sua conoscenza della cultura popolare americana per stabilire, in un fluviale articolo, “la morte dell'età adulta”. Con ciò egli intende il trapasso come avvenuto negli Stati Uniti, e non arriva a estenderlo all'Europa: però, guardiamoci intorno, la differenza non è molta e il passo che Scott non ha fatto potremmo muoverlo noi.
Prima di procedere con la sepoltura, sarà meglio stabilire che cosa si intende con “età adulta”. Scott indica quel modello umano – uomo o donna, ma soprattutto uomo – che film e tv proponevano in passato come cittadino realizzato. Trenta o quarant'anni, produttivo e consumatore, incline al gioco, ma al gioco per adulti: automobili, sesso, alcol, sigarette. Vestiva con formale eleganza, dunque scegliendo (e sapendo scegliere) l'abito adatto per ogni occasione, e proponeva di sé una presenza (mi è quasi inevitabile scivolare sul soggetto maschile) virile, asciutta, solida. Il confronto con il trentenne-quarantenne di oggi è stridente: l'abbigliamento si è sedimentato in un confuso groviglio casual, gli interessi vanno dai Supereroi Marvel alla rilettura compulsiva della serie di Harry Potter e le bevande preferite confluiscono pericolosamente nel latte di soia. Intorno a lui, non più il fumo azzurrino delle Marlboro, ma la nuvola protettiva delle web-info: “mi piace”, “:-)”, “LOL”, “#quantosonofigo”.
Si dirà: trattasi di due modi diversi di essere infantili, dal modello James Bond a quello Mark Zuckerberg. C'è chi dà la colpa all'investimento del capitalismo sulla gioventù e chi discetta di “crisi dell'autorità”. Magari, sotto sotto, c'è sempre la vecchia, cara paura della morte: una volta si credeva di poterle sfuggire travestendosi da Cary Grant, oggi ci proviamo infilandoci in un costume di Winnie the Pooh.
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