Una delle ragioni - non la più trascurabile - per cui non riusciamo a liberarci dalla crisi è che nessuno, fino a oggi, è riuscito a raccontarla. Non dico che nessuno ci abbia provato: a dire la verità, lo hanno fatto quasi tutti. Ma in ognuno di questi tentativi abbiamo visto non la crisi nella sua vasta, parassitaria invasione dei corpi e delle anime, ma una rappresentazione della medesima a scopi spettacolari.
Per la televisione, la crisi è una cosa che si urla: le telecamere hanno bisogno di reazioni forti e vanno in cerca di imprenditori che strillano minacce contro Equitalia - meglio se in dialetto veneto -, operai che piangono, madri che spingono figli musoni sotto i riflettori. Qualcosa della crisi c'è, lì dentro, ma a fine serata il tutto si condensa in una piéce surreale: spontanea piazzata con interruzione pubblicitaria.
I giornali, pure loro “raccontano” la crisi: troviamo interviste, dati, numeri. Anche questa roba è crisi, certo, ma lo è quanto il tracciato dell'elettrocardiogramma è il cuore del paziente: un segno grafico dell'attività dell'organo, non l'organo stesso. Mi rendo conto che per raccontare la crisi come andrebbe raccontata occorrerebbe produrre uno sforzo invero sorprendente. Perché occorrerebbe catturarla non nei suoi aspetti teatrali (la piazza televisiva ben orchestrata) o statistici (gli articoli economici) ma nel suo stillicidio quotidiano.
Uno stillicidio, badate, delle emozioni: quelle di chi scorre gli annunci economici in cerca di un lavoro, di chi si alza presto per rimediare due euro, di chi, la sera, pianifica impossibili economie e di chi si sforza di garantire ai figli una serenità di cui, ogni giorno, deve constatare l'ingannevole fragilità. Raccontare il grigio senso di soffocamento che la crisi ha portato tra noi sarebbe, in effetti, raccontare la crisi. Ma nessuno sembra capace di farlo. Nessuno, addirittura, sembra in grado di concepire una forma che possa contenere un'opera adatta a questa ambizione narrativa e testimoniale. E anche questa è crisi.
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