Anche senza

È tempo di occuparci seriamente del fenomeno che più minaccia le nostre vite: Pokémon Go. Lo conoscerete senz’altro; il giochino per smartphone che in pochi giorni ha invaso il mondo. Il meccanismo è semplice: si scarica il programma sul telefonino e ci si mette a caccia per strade reali di mostriciattoli virtuali.

In questa ennesima “mania” che pervade l’umanità - più che altro quella privilegiata - molti hanno voluto leggere i prodromi di una catastrofe culturale, le avvisaglie del definitivo crollo della società. In ballo, indubbiamente, c’è un certo grado di stupidità: quella che serve ad abbandonarsi, da adulti, a un gioco del tutto fatuo e improduttivo. Ci sono tante altre attività sciocche, bisognerebbe notare, che non ci scandalizzano: questa però è nuova e quindi disturba.

Per fortuna, qualcuno si è incaricato di esaminare il fenomeno Pokémon Go da un punto di vista scientifico, senza pregiudizi e pretese di sociologia d’accatto. Lo psicologo Andrew Przybylski dell’Oxford Internet Institute mancherà di vocali nel cognome, ma non di acume: è stato in grado infatti di isolare le caratteristiche fondamentali del gioco, quelle che forse ne spiegano il successo.

La prima è che esso si basa su una tecnologia avanzata ma non difficile: gli utenti hanno la sensazione di utilizzare una cosa nuova che tuttavia sono subito in grado di padroneggiare. Entra poi in gioco il fattore nostalgia: molti ritrovano nel nuovo Pokémon la familiarità del vecchio Pokémon, quello degli anni ’90. Il gioco, infine, offre «un senso di esplorazione e di connessione sociale con gli altri».

Visto così, questo Pokémon Go diventa molto più umano: si basa su familiarità, nostalgia, senso di avventura e voglia di fare amicizia. Tutte cose che conosciamo bene e che non sono affatto nocive. Basta ricordarsi che, volendo, si possono praticare anche senza telefonino.

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