Ancora in viaggio

Ancora in viaggio

Il treno finalmente raggiunge la banchina e gemendo si ferma in modo decentrato rispetto alle persone in attesa: questo per evitare che qualcuno si ritrovi allineato con lo sportello del vagone e possa dunque godere di agevole accesso, una cortesia bandita nel trasporto pubblico. Accade poi una cosa strana: dallo sportello della locomotiva un addetto si affaccia e spinge uno sguardo indagatore lungo tutta la banchina, uno sguardo che sembra dire: «Voglio proprio vedere chi ha il coraggio di salire».

Tutti salgono, ma non è una questione di coraggio. Il viaggiatore è prigioniero della sindrome di Stoccolma e partecipa attivamente al suo supplizio. Non si aspetta però di trovare quello che trova non appena salito sul treno: occhi. Occhi che lo guardano con freddezza e, anzi, ostilità. Sono gli occhi degli altri viaggiatori, quelli saliti prima, in altre stazioni altrettanto inospitali. Avvertono la presenza del nuovo arrivato come un aggravio della loro condizione: «Vorrà sedersi? Dove pretenderà di sistemare la sua valigia? Attaccherà bottone? Passerà tutto il tempo a urlare scempiaggini in un telefono cellulare?»

Ma una sorta di assorbimento presto accade. È un fenomeno naturale simile alla divisione delle cellule per mitosi. In questo caso le cellule, cioè i viaggiatori, si uniscono anziché separarsi: la prossimità dei corpi contribuisce a questo amalgama organico e, insieme, psicologico. Il viaggiatore si ritrova così a pensare i pensieri di tutti: «Perché siamo fermi?», «È normale che il treno faccia questo rumore?», «Che cos’è questa puzza?»

Accade poi che, come al risveglio da un incubo troppo lungo, il viaggiatore - sfinito, lacero: un essere molto diverso dall’uomo che avevamo conosciuto alla partenza - si ritrovi a destinazione. La sua gioia sarà tale, il sollievo così importante, che a malapena noterà come, nella notte buia, non ci sia nemmeno un taxi ad aspettarlo.

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