Lascerei analisi e commenti su quanto è accaduto a Bruxelles a chi è più esperto di me (non ci vuol molto) e soprattutto a chi è disposto a esporsi di più in fatto di previsioni, strategie, invettive ed esternazioni passionali.
Io, come sempre mi accade quando leggo dei morti, penso ai vivi. A quanti, ieri, hanno ricevuto una telefonata che li informava della morte di un parente stretto: era sulla metropolitana, era in aeroporto. Era.
A tutti, nella vita adulta almeno, è capitato di ricevere notizia della scomparsa di un familiare, un amico o un collega. Sono istanti che affondano nella vita ferite durevoli, forse permanenti: con il tempo, smettono di eruttare un dolore imminente, ma si trasformano in cicatrici, segni talmente evidenti e bruschi da rimodellare le nostre fisionomie. Di tali ferite soffrono tante persone ogni giorno: come non pensare alle famiglie delle povere ragazze morte in Spagna?
Mi chiedo però cosa si provi nel venire informati che una persona cara è morta a causa della ferocia, della stupidità, della superstizione, della codardia glorificata e promossa da un gruppo di tristi burattini. Quanta rabbia si dovrà mescolare al dolore, quanto desiderio di vendetta e quanto disprezzo per chi, dal palco delle autorità, gioca con le parole, sventola bandiere, ricorre alla retorica più trita?
Immagino sia un sentimento simile, non identico, a quello provato dai familiari delle vittime di guerra: in quelle circostanze doveva esserci però un pre-allarme nell’aria, un senso di ineluttabilità respinto con la mente ma pur sempre temuto dal cuore, e, soprattutto, doveva intervenire in soccorso un senso di solidarietà collettivo, una vicinanza sociale tesa a lenire lo strappo individuale.
Quelle di ieri, come le altre vittime del terrorismo, sono invece vite strappate a caso per il gioco, tutto politico, della paura su scala mondiale. Ma sono anche lutti personali: lasciano tra noi singole anime torturate che, quando la sera si spegne la luce, rimangono sole. Più sole di chiunque.
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