Capita, non troppo spesso, che anche i produttori televisivi abbiano una buona idea. Di solito, l’evento richiede un qualche stimolo esterno, come una tegola che li colpisca tra i lobi frontali o un autobus che, sormontandoli con le sue ruotone, provveda a applicare loro un massaggio tale da stimolare la circolazione sanguigna.
Comunque sia, non si può che definire “buona” l’idea di quel produttore tv che ha realizzato un documentario sulla giornata lavorativa di un “pilota di drone”.
Fare il “pilota di drone” significa alzarsi ogni mattina in una linda villetta nel Nevada - una di quelle casette con un po’ di verde davanti e il vialetto che conduce al garage, il canestro avvitato al muro, la bandiera americana sullo steccato - guidare fino a una base militare, prendere posto in ufficio e, dalle 9 alle 17, bombardare l’Afghanistan piuttosto che il Pakistan o l’Iraq. Con il pilota convenzionale, quello di drone condivide responsabilità militari e morali. Non i rischi, non i disagi.
Per certi versi, il “pilota di drone” ci rappresenta tutti: seduti in casa da questa parte del mondo, riusciamo a combinare disastri nell’altra. Solo che lui, i disastri, li vede accadere grazie a una telecamera. A pensarci bene, anche noi vediamo i nostri grazie alle telecamere: basta collegarsi con un telegiornale qualunque.
“Piloti di drone” per una parte dell’umanità, diventiamo a nostra volta “vittime di droni” a seconda delle circostanze: quando una fabbrica apre in Cina e toglie lavoro a noi, quando nella competizione commerciale i nostri prodotti vengono sconfitti da quelli dei Paesi emergenti.
Un tempo, per farsi a pezzi e rovinarsi, gli uomini dovevano almeno scomodarsi. Oggi non è più necessario, il che rende l’operazione più impersonale e quindi tanto più pericolosa. Forse, per recuperare un certo contatto con il prossimo, dovremmo tornare a uscire di casa. Abbiamo comunque poco da perdere: facile che prima o poi arrivi un drone e ce la rada al suolo.
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