Asilo felino

In questi giorni i media tratteggiano del mondo un ritratto alquanto fosco. In molte zone la terra frana letteralmente sotto i nostri piedi e, laddove invece ci sostiene, la ripaghiamo litigando tra noi giungendo spesso all'estremo dell'omicidio. Ancora, quando non frananti e non omicidi, ci accapigliamo su questioni serie come la gestione della cosa pubblica con argomentazioni che i monelli da strada giudicherebbero indegne.

Sarà forse il contrasto tra questo quadro cupo e la pretesa luminosità del Natale ad avermi spinto a un passo che da tempo meditavo: chiedere asilo politico ai miei gatti. Con ciò intendo dire che ho ufficialmente chiesto alla popolazione felina della mia casa, composta a quattro unità, di venire ammesso nell'esclusiva cerchia, nonostante le mie evidenti mancanze. I gatti si sono subito riuniti e invece di rispondere sì o no mi hanno prodotto un elenco di valutazioni sulla mia attitudine gattesca. In particolare, è stata giudicata insufficiente la mia capacità di produrre fusa quando carezzato sotto il ganascino mentre “buona” è stata valutata la mia tendenza a rovesciarmi sulla schiena esibendo il pancino. Pessimo, infine, il voto sulla tenica di gestione della coda e a nulla sono valse le mie proteste tese a far notare che la coda io non ce l'ho.

Soprattutto, la compagnia felina ha voluto portare alla mia attenzione su un recente studio - pubblicato in un libro intitolato “Cat sense” - in cui si fa finalmente strame del luogo comune secondo il quale i cani sanno dimostrare affetto e i gatti no. Secondo questo studio, i gatti sono legati ai loro “padroni” come e forse più dei cani. Solo, è diverso il “linguaggio” con cui lo dimostrano. Noi, dominati da una cultura più canina che felina, cerchiamo nel gatto segni del linguaggio dei cani, incorrendo un evidente corto circuito semiotico.

Ma lo studio di cui sopra ci porta a una considerazione ancora più rilevante. Dunque, i cani sanno dimostrare vero affetto e i gatti pure: quando, alla buon'ora, ci riusciremo anche noi?

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