Ora che tutti parlano di “selfie” e, più che parlarne, lo praticano a mani basse, vale la pena riflettere sul fatto che le novità alle quali noi tutti portiamo il nostro contributo di entusiasmo e di conformismo sono tali a spese di cose che, all’improvviso, si scoprono sorpassate e inutili.
Il sospetto era in giro da tempo - bastava pensarci su, in effetti - ma ora che Taylor Swift, cantautrice e attrice americana, lo ha scritto sul Wall Street Journal, non c’è più dubbio alcuno: il “selfie” prospera sul cadavere eccellente dell’autografo.
Il fan che, un tempo, si ritrovava faccia a faccia con un personaggio famoso doveva rimediare un pezzo di carta e una penna perché esso potesse lasciargli una traccia di se stesso: l’autografo, appunto, meglio se accompagnato dalla sua devota sorella, la dedica; oggi, il fan di cui sopra, agguanta il telefonino e chiede alla persona toccata dalla celebrità di condividere con lui o lei lo spazio di un’inquadratura. Un clic ed ecco ciò che un tempo era l’autografo addensarsi in un rettangolo di pixel. Tutto più veloce, pratico, altrettanto - se non più - indelebile e, soprattutto, efficace: vuoi mettere uno scarabocchio con la faccia di [inserire qui il personaggio preferito] accanto alla nostra?
Ma è proprio vero che il “selfie” - o “autoscatto” come insisto a chiamarlo - rappresenta la perfetta evoluzione tecnologica dell’autografo? Non si tratta, forse, di due cose diverse? Una fotografia è un istante messo sotto vetro: si conserva perfettamente ma è intangibile. Una firma, per nostra sensibilità e cultura, è uno sbaffo che, attraverso la mano, si vuole arrivi direttamente dall’intima natura della persona che lo lascia: un riconoscimento di potestà, un attestato di partecipazione, un’accettazione di responsabilità. Non a caso, l’autografo aggiunge valore all’oggetto sul quale è posto. Il “selfie”, al contrario, ne sottrae un po’ a chi, come i moscerini, si accalca sotto la luce della fama.
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