Non si può fare a meno di notare, rischiando l’ovvietà, che i social network rispecchiano oggi, su più larga scala, quello che ieri era la piazza, il pianerottolo o il bar. Incomincia Sanremo? Ecco che su Facebook (luogo ciarliero, rispetto all’asciuttezza autoritaria di Twitter) si allarga la consueta onda di commenti: il vestito di quella, la canzone di questo, ma quanto è bravo Cat Stevens, quanto è strabordante la Carrà e tutto ciò c’è da dire sul Festival (anche da chi, con l’ovvio intento di farsi notare, dichiara di non guardarlo. Avete poi qualcosa da dire su Renzi? O su Beppe Grillo? Come gliele canta, eh? Insomma, spazio per tutti e discussioni a non finire.
Personalmente, ciò che più mi sorprende dei social network è quanto fedelmente riproducano, oltre al desiderio di comunicare, anche la nostra endemica incomunicabilità. Non occorre scomodare le rarefatte pellicole di Antonioni per afferrare il concetto: in questo caso, incomunicabilità non è tanto l’impossibilità di comunicare con gli altri quanto la necessità, che sgorga dritta dalla nostra carne, di comunicare qualcosa non al prossimo, ma all’assoluto che ci circonda, all’ineffabile universo, all’ingiustizia del caos, al disegno incomprensibile del tutto. Mi piacciono dunque quei messaggi che sono “postati” apparentemente a beneficio altrui ma in realtà a bisogno nostro.
Sfoghi di intensità pari alla loro vaghezza: “Certo che per parcheggiare in doppia fila fregandosene degli altri bisogna proprio avere il posteriore cucito al posto della faccia”; “Avviso a quelli dei call center: se mi chiamate un’altra volta per la promozione fibra ottica vi faccio un upload di bestemmie a velocità (da voi) mai vista”, “Non può piovere per tre settimane. Fate qualcosa”, “Oggi vorrei essere nata domani”. Esalazioni di magnifica disperazione che provano una verità, secondo me, poetica: all’anima non serve un destinatario. Basta un mittente.
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