Come accade di continuo in questo mondo che si usa definire “virale” ma meglio sarebbe chiamare “a pecorelle” (uno si muove e tutti gli altri gli vanno appresso), ieri la Rete si è cosparsa di fotografie scattate nell’isola giapponese di Aoshima. In questo fazzoletto di terra emerso dal mare, collegato all’isola-madre da un traghetto, vivono 20 umani e 120 gatti.
Un tempo il rapporto non era così favorevole ai felini. L’isola era popolata di pescatori e i gatti, in minoranza, si accontentavano di cacciare i topi e di raccogliere i rimasugli del pesce, ovvero gli scarti del pescato. Oggi non è più così: il Giappone industriale ha chiamato gli abitanti di Aoshima nelle sue città e i gatti, stanziali, dominano in lungo e in largo.
Non sono mai stato ad Aoshima ma ho avuto esperienza di un altro luogo dominato dai felini: Houtong a Taiwan. La storia di questo paesino cinese è in tutto simile a quella dell’isola giapponese: basta sostituire “minatori” a “pescatori”. Chiusa la miniera di carbone, Houtong ha perduto umani e guadagnato in felini.
Arrivarci è un’esperienza certamente particolare. Lasciata l’auto nell’unico parcheggio disponibile ai margini del paese, ci si addentra per le strade silenziose. Di tanto in tanto un miagolio ci ricorda dove siamo e chi comanda. I gatti, disseminati ovunque (in mezzo alla via, sulle soglie delle poche case abitate, sui tetti di lamiera e perfino in cima alla scultura a loro dedicata) fissano i visitatori con i loro occhi profondi ed enigmatici. Apprezzano le carezze e il cibo, non necessariamente in questo ordine.
Passeggiare per Houtong e, ne sono certo, anche per Aoshima, offre la rara esperienza di sentirsi visitatori su un altro pianeta. Per istinto, si abbassa la voce, ci si muove in punta di piedi e si diventa più educati, tolleranti e gentili.
Dovremmo sempre vivere così: come una minoranza ospite, una bizzarria ancora sotto esame, come candidati a risiedere su un pianeta di antica, meravigliosa normalità.
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