Temo proprio che nei giorni scorsi, scrivendo di doglianze come il terremoto e i migranti, abbia dato l’impressione di voler fare la morale a qualcuno. Per quanto basso e periferico sia il piedistallo di questa rubrica, è quasi inevitabile, salendovi, indulgere in quel trombonismo così comune nell’italiano medio che si rivolge a un pubblico, sia lo faccia da un giornale, sia da un palco o perfino, dopo il terzo bicchiere di vino, dal matrimonio di un amico. Tutto ciò non mi esime dallo scusarmi con voi per il sussiego dispensato: non c’è colpa peggiore, nel mio codice morale, che ammorbare il prossimo con prediche non richieste. Per questa ragione, oggi vorrei sterzare su un argomento meno esposto alla retorica.
In tutto il mondo, ieri, è risuonata (letteralmente) l’eco di un anniversario rock, anzi pop: i 50 anni dall’ultimo concerto dei Beatles.
Esso si tenne a San Francisco al Candlestick Park (che è uno stadio, non un parco) davanti a 25mila persone. I quattro suonarono in tutto undici canzoni: una “scaletta” che li tenne impegnati poco più di mezz’ora. In compenso, scattarono molte fotografie: al pubblico e a se stessi, senza che nessuno gridasse al miracolo per l’invenzione (?) del selfie.
Da un punto di vista musicale, tutt’altro che un’occasione memorabile: l’impianto di amplificazione era ridicolo se rapportato all dimensioni dello stadio e la musica risultò coperta dalle ininterrotte urla delle fan. I Beatles stessi non vedevano l’ora di chiudere e di liberarsi così dell’ormai insopportabile peso dei tour.
Come sappiamo bene, però, la storia pop del mondo si basa non tanto su criteri di qualità estetica quanto di intensità simbolica. In questo, poche circostanze battono il concerto di Candlestick Park. Potessi tornare indietro nel tempo è proprio questo il momento storico, tra quelli nell’arco della mia vita, al quale non vorrei mancare. Un brutto concerto dei Beatles nel 1966 rivestirebbe la mia vita della sua perfetta colonna sonora.
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