Si parla non poco delle iniziative che i media e i grandi social network hanno intrapreso, o dovrebbero intraprendere (e anche, per qualcuno, che dovrebbero evitare di intraprendere) in modo da contrastare il fenomeno delle “fake news”, localmente note come “bufale”. Se ne può discutere allo sfinimento e perfino sperare, sempre che il dibatto sulle “fake news” non sia a sua volta inquinato da “fake news”, di arrivare a una sintesi, ovvero all'individuazione di un meccanismo che faccia da scudo almeno contro le fesserie più pericolose.
Tuttavia, il principio di accessibilità e libertà connesso alla natura stessa della Rete non può del tutto essere messo in discussione, pena la perdita di uno strumento che, in questi anni, si è rivelato tanto problematico quanto utile, tanto sciagurato quanto essenziale. Il problema è dunque complesso: come coniugare la libertà, perfino l'anarchia, del Web con un minimo di affidabilità, credibilità e, in ogni caso, di chiamata di responsabilità per ciò che si dice e si pubblica? La risposta, forse, in una recente ricerca pubblicata in “Applied Cognitive Psychology”. Resterà deluso chi si aspettava una soluzione facile, immediata e poco costosa: magari una sorta di filtro da applicare alla Rete come si applicano gli addolcitori alla rete idraulica o i salvavita a quella elettrica. Purtroppo, l'antidoto è nobile ma agisce con lentezza: si tratta dell'istruzione. La ricerca dimostra che le persone con più alto livello di istruzione tendono a respingere al mittente le balle informatiche, mentre chi ha studiato poco è più aperto ad accettare notizie sgangherate, cospirazioni, menzogne pseudo-scientifiche e scie chimiche cantando.
Sembra un'ovvietà: la soluzione al problema non sta nel cambiare la natura della Rete ma nell'elevare la capacità analitica di chi la usa. Facile a dirsi, certo, ma non a farsi: per riuscirci i governi devono incominciare a investire per davvero nella scuola. Che non solo deve essere “buona” ma soprattutto seria.
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