Cancello aperto

In un’intervista a La Stampa, il celebre fotografo Paolo Roversi ha espresso un concetto che mi tocca da vicino. Questo: «Con le nuove tecniche, i telefoni, le macchine digitali, tutti si sentono fotografi ma non è così. La fotografia è un vero linguaggio e ci sono tanti analfabeti».

La frase di Roversi mi tocca non perché io sia un fotografo ma perché, in questa epoca digitale, i fotografi hanno qualcosa in comune con i giornalisti: tutti fanno foto così come tutti scrivono (e pubblicano). In entrambe le categorie professionali – fotografi e giornalisti – c’è in giro una sotterranea irritazione perché la gente – molta gente, almeno – non sembra fare distinzioni: una foto è una foto e uno scritto è uno scritto, non importa quale grado di conoscenza, credibilità, esperienza ed etica sia stato impiegato per arrivare a produrlo.

Questo sdegno per essere confusi nella massa dei “selfie” e dei “blog” o dei “post” è comprensibile. Ciò che è meno comprensibile è la segreta (ma non tanto) speranza coltivata da fotografi e giornalisti che il pubblico redima se stesso e incominci a fare distinzioni sulla base, più che di fatti, di abitudini ormai tramontate.

La straordinaria apertura del cancello della pubblicazione, intervenuta con Internet, ha fatto sì che i cosiddetti “professionisti” si ritrovino oggi circondati dalla massa dei “dilettanti”: la cosa peggiore che possano fare è mostrare disprezzo per questa nuova condizione “democratica”. Al contrario, sarà il caso di darsi una mossa, il che significa impegnarsi in termini qualitativi. Se c’è talento, dovrà brillare; se c’è esperienza, dovrà emergere; se c’è mestiere, dovrà risaltare. Bisogna “fare la differenza”, come si dice, e la “differenza” non è qualcosa di presunto o di imposto per divina intercessione. La differenza è invece qualcosa che si deve vedere, toccare, misurare. Navighiamo dunque verso una destinazione ancora imprecisata, ma nella quale la parola “professionista” puzzerà meno di status e profumerà più di intelligenza.

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