Ho letto praticamente tutto quello che mi è capitato sotto gli occhi sulla liberazione di Palmira, in Siria, dagli sgherri dell’Isis e, soprattutto, sulle condizioni in cui è stato ritrovato l’importante sito archeologico romano rimasto per mesi e mesi in mano a gentaglia il cui disprezzo per le testimonianze del passato è eguagliato solo da certi assessori e sovrintendenti italiani.
Ho letto tutto, dicevo, ma non sono sicuro di aver capito bene in quali condizioni è stata ritrovata Palmira: in certi articoli, gli archeologi sembrano inconsolabili per i tesori perduti, in altri manifestano più ottimismo, quasi sollievo. Immagino dipenda dal nostro grado di apprensione: chi si aspettava di trovare solo polvere del deserto, è contento di rivedere intatto un mozzicone di colonna, chi non sopportava l’idea che anche un dettaglio andasse perduto, sarà caduto nella depressione più acuta di fronte a certe evidenti prove di demolizione.
In mancanza di certezze, ho deciso di sposare la tesi negativa: dopo tutto, nulla può uscire incontaminato dal passaggio di un’onda di fanatismo e ignoranza.
L’unico barlume di speranza è che, paradossalmente, il mondo si è finalmente dovuto accorgere dell’importanza di Palmira: come spesso accade, il valore di ciò che possediamo lo si scopre quando rischiamo di perderlo. In questo caso, il valore in gioco è talmente grande da diventare un simbolo: in fondo, Palmira rappresenta proprio la fonte di quella civiltà che i barbuti massacratori stanno cercando (senza riuscirci) di demolire. Bisognerebbe d’ufficio proclamarla capitale del mondo, non solo dell’Occidente, e come negli anni si è fatto per Berlino, New York, Parigi e Bruxelles, proclamarci tutti abitanti di Palmira. Per poi schierarci con millenario sdegno contro tutte le devastazioni piccole e grandi che vediamo intorno a noi.
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