Caro lettore, apro con un’intestazione singolare e personale per due ragioni: 1) non ho fondati motivi per pensare che i lettori di questa rubrica siano più di uno; 2) rivolgersi direttamente a qualcuno dalle pagine di un giornale - a mo’ di lettera - è la tendenza del giorno. Tanto per fare un esempio: nell’edizione di martedì 8 marzo, il quotidiano «Libero» ne allineava in prima pagina ben tre: Marina Berlusconi scriveva «caro Saviano», Gianluigi Paragone «caro Fini» e Filippo Facci «care Donne».
È questa della “lettera personale in pubblico media” una tecnica evidentemente gradita. Il lettore, immagino, si sente attratto da una diatriba che si vorrebbe intima e viene invece messa in piazza, quasi gli venisse offerta l’occasione di guardare dal buco della serratura, ben sapendo che il mittente, per il destinatario, avrà senz’altro in serbo stoccate polemiche quando non vere e proprie contumelie.
L’ escamotage, a pensarci, è ingannevole. Le parole di Paragone per Fini, come quelle di tutte le altre "lettere" non importa da chi e per chi, sono dirette a noi, non al preteso interlocutore; tendono a convincere noi e non l’altro: alimentando l’illusione di lasciarci fuori dalla contesa, ci coinvolgono più profondamente. Incomincerei a diffidare, dunque, perché certa ipocrisia si scongiura non mescolando (finte) comunicazioni private a considerazioni pubbliche, ma distinguendo con onestà le une dalle altre.
È questa della “lettera personale in pubblico media” una tecnica evidentemente gradita. Il lettore, immagino, si sente attratto da una diatriba che si vorrebbe intima e viene invece messa in piazza, quasi gli venisse offerta l’occasione di guardare dal buco della serratura, ben sapendo che il mittente, per il destinatario, avrà senz’altro in serbo stoccate polemiche quando non vere e proprie contumelie.
L’ escamotage, a pensarci, è ingannevole. Le parole di Paragone per Fini, come quelle di tutte le altre "lettere" non importa da chi e per chi, sono dirette a noi, non al preteso interlocutore; tendono a convincere noi e non l’altro: alimentando l’illusione di lasciarci fuori dalla contesa, ci coinvolgono più profondamente. Incomincerei a diffidare, dunque, perché certa ipocrisia si scongiura non mescolando (finte) comunicazioni private a considerazioni pubbliche, ma distinguendo con onestà le une dalle altre.
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