Certo, l’inverno non aiuta. Non aiutano il cielo grigio, le pozzanghere; anche le facce della gente, lunghe e un poco sgomente nel freddo del mattino, non contribuiscono a stemperare la mestizia generale. Ad annunciare il disastro, però, è soprattutto il disastro stesso.
Quale disastro, dite? Ecco, lo sapevo: non lo vedete più. Anch’io, a essere sincero, il più delle volte lo trascuro; lo ignoro anzi, trapassandolo con lo sguardo come farei con un fantasma. Ciò nonostante, il disastro è li e mi capita, in qualche momento di particolare e dolorosa lucidità, di scorgerlo in tutto il suo orrore.
Il disastro, per essere chiaro, è dato dall’insieme delle nostre strade e delle nostre piazze, onuste, direbbe chi ha inghiottito un dizionario, di lontana gloria e celebrate, un tempo, per leggiadra bellezza, ma oggi immonde, sdentate e nelle quali, troppo spesso, le deiezioni dei cani rappresentano il meglio che sia dato incontrare. Non so come e quando è successo ma se qualcuno, dopo un sonno durato venti o trenta anni, si svegliasse oggi, penserebbe di essere sopravvissuto a un bombardamento nucleare.
Ogni tanto mi perdo a guardare lo sfacelo dal finestrino del treno. Rovine a perdita d’occhio, come presentate, offerte quasi, da un catalogo di schifezze. Schegge di mattoni e vernice scrostata, ruggine, rifiuti, marciapiedi mutilati, strade divorate dal vaiolo delle buche. E dove qualcosa di recente, di sovrapposto, interviene a guisa di annuncio - un messaggio pubblicitario, una scritta, un avviso, spesso un divieto - ecco rivelarsi l’approssimazione, la volgarità e l’ignoranza di chi - noi - ha permesso che tutto andasse in malora.
Il disastro si tradisce per ciò che è: un ritratto dal vero della corrente apatia, della diffusa resa sociale. Di fronte a tutto questo c’è da dire che, almeno, sarà facile cogliere la fine della crisi: avverrà quando, ritrovato il lavoro, raggiunte un poco di sicurezza e di fiducia, avremo finalmente l’energia per ribellarci al brutto.
Quale disastro, dite? Ecco, lo sapevo: non lo vedete più. Anch’io, a essere sincero, il più delle volte lo trascuro; lo ignoro anzi, trapassandolo con lo sguardo come farei con un fantasma. Ciò nonostante, il disastro è li e mi capita, in qualche momento di particolare e dolorosa lucidità, di scorgerlo in tutto il suo orrore.
Il disastro, per essere chiaro, è dato dall’insieme delle nostre strade e delle nostre piazze, onuste, direbbe chi ha inghiottito un dizionario, di lontana gloria e celebrate, un tempo, per leggiadra bellezza, ma oggi immonde, sdentate e nelle quali, troppo spesso, le deiezioni dei cani rappresentano il meglio che sia dato incontrare. Non so come e quando è successo ma se qualcuno, dopo un sonno durato venti o trenta anni, si svegliasse oggi, penserebbe di essere sopravvissuto a un bombardamento nucleare.
Ogni tanto mi perdo a guardare lo sfacelo dal finestrino del treno. Rovine a perdita d’occhio, come presentate, offerte quasi, da un catalogo di schifezze. Schegge di mattoni e vernice scrostata, ruggine, rifiuti, marciapiedi mutilati, strade divorate dal vaiolo delle buche. E dove qualcosa di recente, di sovrapposto, interviene a guisa di annuncio - un messaggio pubblicitario, una scritta, un avviso, spesso un divieto - ecco rivelarsi l’approssimazione, la volgarità e l’ignoranza di chi - noi - ha permesso che tutto andasse in malora.
Il disastro si tradisce per ciò che è: un ritratto dal vero della corrente apatia, della diffusa resa sociale. Di fronte a tutto questo c’è da dire che, almeno, sarà facile cogliere la fine della crisi: avverrà quando, ritrovato il lavoro, raggiunte un poco di sicurezza e di fiducia, avremo finalmente l’energia per ribellarci al brutto.
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