Cattivi tempi

Ora che il cattivo tempo è pressoché costante - e possiamo dare la colpa al global warming, come alle centrali nucleari, alla nuova era glaciale come ai matrimoni gay (io personalmente propendo per questa ultima ipotesi) - bisognerà che prendiamo le nostre contromisure. Ombrello e stivali di gomma, si è già capito, non bastano: sarà necessaria una svolta, per così dire, culturale.

È curioso: piove spesso (e tanto) ma il Paese è paese progettato e costruito come se ci fosse sempre il sole. Perché rinforzare un argine se non cade una goccia da anni? Perché costruire un canale se le nuvole, da queste parti, sono concetti astratti, rarità quasi folkloristiche? Viviamo tra un’emergenza e l’altra come se, finito un temporale, una circostanza del genere non dovesse mai più ripetersi. Il fango asciuga e con esso secca il nostro senso di responsabilità, la nostra capacità di anticipare i problemi, di prevenire i guai. Spentosi l’eco del tuono, ci guardiamo come se non avessimo mai sentito prima un rumore del genere e, soprattutto, come se ritenessimo improbabile o addirittura impossibile che ci toccherà sentirlo di nuovo.

Solo l’emergenza ci tiene vivi: esalta l’orgoglio, la solidarietà, l’eroismo e quel tanto di epica che ci è rimasta dentro dall’aver letto, a scuola, Ludovico Ariosto. Quando il pericolo è passato, tutti al bar a commentare l’accaduto, a sparlare del governo (per carità: gli argomenti non mancano), a criticare “lorsignori” e a stabilire, scuotendo il testone con vigore, che queste cose «non devono capitare mai più».

Mentre parliamo, il bosco si sporca, il canale si intasa, un geometra trucca le carte per costruire a due passi da una falda, il consiglio comunale gira i fondi della manutenzione per le fogne all’Associazione per la prosperità degli assessori e la terra cede ancora, appena un po’, ma sensibilmente, sotto il peso dell’assurdo vivente che siamo diventati.

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