Di recente, ho sentito un’esperta in neuroscienze, Molly Crockett, definire i “mi piace” (o “like”) che riceviamo e dispensiamo attraverso i social network “unpredictable rewards”, ovvero “premi imprevedibili”. Secondo la scienziata, questi “premi”, che nella vita “reale” corrispondono all’inaspettato elogio di un professore, di un collega o magari dei genitori, formano nelle nostre menti gratificanti abitudini a breve termine, esattamente come fa la patatina pescata dal sacchetto o il cioccolatino consumato davanti alla tv.
Anche se forse non siamo mai arrivati ad analizzare la sensazione nel dettaglio, tutti noi sappiamo che cosa si prova davanti a un “mi piace”. Innanzitutto, i “mi piace” che riceviamo sono per noi tutti uguali e tutti significativi: chi ha messo il “pollice su” a un nostro post è perché ci apprezza veramente e, in pieno entusiasmo, condivide le nostre idee, ama le nostre foto e ammira le nostre serate in trattoria. “Mi piace”, per il nostro bisogno di identità positiva, vuol dire in realtà “Mi piaci” o addirittura “Ti amo” e “Ti ammiro”.
D’altra parte sappiamo però che i “mi piace” da noi distribuiti non sono altrettanto uguali: alcuni sono senz’altro convinti, altri sono dettati da un generico affetto per la persona che andiamo a gratificare, altri ancora sono di convenienza, “like” di cortesia, per così dire, o addirittura “falsi” se non proprio ipocriti.
Li dispensiamo lo stesso perché tanto “dall’altra parte” non si vede che tipo di “mi piace” abbiamo messo, non si noterà se è poco convinto, distratto, accondiscendente o magari ironico: sappiamo che arriverà un “like” e come tale formalmente interpretabile solo come un cenno di apprezzamento.
Un gioco di dare e avere, di leggere i messaggi altrui come più ci conviene e di inviare i nostri confidando inconsciamente nelle necessità ricettive del prossimo che certo non è esclusiva dei social: nasce prima nei rapporti interpersonali e si trasferisce in un secondo momento su Facebook o Instagram, dove assume la forma ineffabile di un’icona. Sarebbe in ogni caso opera buona se qualcuno si prendesse la briga di stendere una “fenomenologia” del “mi piace”, specie se non dimenticasse di aggiungervi una certa dose di ironia e di salutare cinismo, ovvero se non trascurasse di strapazzare almeno un po’ questa (relativamente) nuova forma di doppiezza, di mediazione dei sentimenti, di lubrificante sociale fatto con gli scarti della sincerità e i residui della gentilezza.
Credo che ne scopriremmo delle belle e, forse, saremmo in grado di assegnare ai social network il ruolo che meritano: niente più che un cerimoniale della nostra presenza collettiva, un buffet emotivo dal quale attingere con misura ricordandosi sempre di accostarlo con grazia e buon spirito.
Chissà allora che, dopo essere diventato sostituto relazionale, arma politica, strumento di spionaggio, teatro di manipolazione e palestra di narcisismo, queste amate/odiate piattaforme potranno finalmente adattarsi al ruolo di semplice tessera nel mosaico della civiltà.
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