Che gusto c'è

Che gusto c'è

Nella classifica delle tante, infinite cose di cui so poco o nulla, ai primi posti figura certamente la gastronomia. Non fraintendete: mi è capitato di pranzare in ristoranti degni di questo nome; alcuni disponevano di tovaglie e di gabinetto, altri si spingevano fino a rilasciare la ricevuta fiscale.

Non sono mai stato, tuttavia, in un ristorante come quello che l’uscente critico gastronomico del New York Times, Sam Sifton, ha visitato a Manhattan nei giorni scorsi, rimanendone conquistato al punto da assegnargli quattro stelle, il massimo previsto dal giornale. Il locale si chiama "Per Se" e il livello del servizio deve essere stratosferico se, al critico, sono poi scappate dalla penna frasi come questa: «L’antipasto non è tanto cibo quanto un poema sulla cremosità, una meditazione sul mare, una scultura innalzata alla delizia». Affascinato da quello che ho intuito elevarsi a tempio alla bontà, mi sono dedicato a scorrere le immagini proposte sia a corredo dell’articolo sia ad arricchimento del sito ufficiale di "Per Se".

In effetti, ho visto cose che voi umani normalmente affamati difficilmente potreste immaginare: olio dispensato con dosatori di precisione, minuscole porzioni servite in un trionfo di porcellane, piatti costruiti con lo sguardo volto più a Modigliani che alla Sora Lella. Un paradiso estetico dal quale la primaria urgenza dell’appetito, per non dire della fame, è stata certamente bandita, scacciata, dimenticata. Quanto a me, ho finito per chiedermi, forse non del tutto a sproposito, che gusto ci fosse in tutto ciò.

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