Che incanto, le parole

Che incanto, le parole

E pensare che c'è stato un francese malaticcio al quale mamma sua, vedendolo infreddolito, volle scaldare un tè e con il tè servirgli una petite madeleine, ovvero un biscottino, uno di quei dolcetti che «sembrano modellati dentro la valva scanalata di una "cappasanta"»; a causa, intendevo dire, di questo insignificante episodio, toccante ma in fondo trascurabile esempio di premura materna, conosciamo oggi un'opera il cui peso incurva gli scaffali e altera l'intero scheletro della letteratura moderna.
Tè e madeleine per Marcel Proust. Nessun ristoro, invece, per Federico Roncoroni: solo parole, ben più eteree di bevande e dolciumi, eppure altrettanto potenti nell'esplodere al gusto ed esplodendo rivelare lo straordinario racconto del quotidiano e il meraviglioso, nonché terribile, romanzo dell'esistenza.
Sillabario della memoria è l'esordio narrativo del professor Roncoroni il quale, fattosi attendere dal suo pubblico, deve aver pensato che, giunto infine il momento di narrare, era il caso di narrare alla grande e ha voluto raccogliere in un libro le "parole amate" in cui si è imbattuto nel corso della sua vita. Va detto che egli, essendo linguista, a ogni incontro con una parola non si limita a un distratto saluto: finisce invece per farle mille domande, per esplorarne i segreti di famiglia, l'origine, la provenienza insomma, e allo scopo indaga fino a scoprire se a pronunciarla per la prima volta è stato un greco, un latino o un qualche straniero di passaggio. Soprattutto, si appassiona al punto da lasciare che la parola lo porti con sé, coinvolgendolo in un'imprevedibile avventura. Ecco il motivo per cui la narrazione del Sillabario è "grande": non c'è infatti veicolo più potente e inarrestabile della parola. Con la parola, di strada se ne fa parecchia.
Le "parole amate" sono tali per una ragione: perché restano, segnano, diventano un tesoro personale. Sono amate perché le ha pronunciate nostra madre, perché sono spuntate sulla bocca languida di un'amante, su quella franca di un amico; o, ancora, perché hanno rimescolato un desiderio, solleticando l'esserino libidinoso che riposa - quando riposa - dentro di noi. Sono qualche volta parole fraintese, perché magari incontrate troppo presto. Capita che il significato "ufficiale", spesso molto ingombrante, non si riesca ad afferrarlo tutto in una volta e occorre dunque adattarselo: io, per esempio, a lungo ho creduto che «l'ira di Dio» fosse «lira di Dio», la divisa monetaria in circolazione entro i confini del Paradiso, una valuta speciale con la quale acquistare, una volta felicemente trapassati, indefiniti generi di celeste necessità.
Questo della "lira" è un fraintendimento tutto mio; Roncoroni ne ha dei suoi, il che è doppiamente esilarante. Prima di tutto perché se un linguista del suo livello può farsi simpaticamente tradire da un vocabolo, allora c'è speranza anche per noi mortali; in secondo luogo perché queste parole travisate assumono un significato unico e non comune, personale e non collettivo, offrendo così l'opportunità di raccontare storie giocoforza inedite. Dunque, è anche grazie a queste parole che si spalancano le porte di un originale passato, un passato soggettivo; della "memoria", appunto: il gran serbatoio del Sillabario di Roncoroni, dal quale estrarre la vita stessa.
La via Carloni di Como, tanto per incominciare, dipinta com'era anni fa, con i suoi personaggi visti ad altezza portineria, tra indigeni e nuovi arrivi, da tener d'occhio, questi ultimi, perché provenendo "da fuori" portavano cose mai viste: dolci sconosciuti, accenti stravaganti e parole nuove. Meravigliose parole nuove.
Parole poetiche: accoglitrice, albàsia, gridellino, serendipità. Popolari: bàmba, inzigare, Pattavuncia, scorléra, tripillare. Minacciose: anemia perniciosa, angioplastica, chemioterapia, moribilità. Buone: bomborino, donna, eden, fare all'amore, nonne, nostalgia, pacioccone, vendemmiare. Ah, sì: maliziose, anche, e qui gli esempi abbondano, perché le parole piccanti non si fanno mai dimenticare: callipìgia, copula, goditoio, materassabile, pastrugnare, sottovèste, tùmido.
Certo, bisogna poi sapere cosa farsene, di parole tanto belle: chiunque potrebbe prendere l'aggettivo "biondetti" e, nell'incertezza, riporlo in quel cassetto - c'è n'è uno in tutte le case - dove finisce ogni cosa sparigliata (forbici, spago, nastro adesivo, mozziconi, monetine fuori corso, vecchie figurine Liebig) e lì dimenticarlo. Datelo a Roncoroni, l'aggettivo, ed egli saprà partire dal poeta Guido Cavalcanti per poi scendere (o risalire?) fino al pube dell'amante, dove un giorno, «biondo più di matura spiga», scoprì un vello, e da questo vello trovato saprà passare ad altri velli frequentati nel tempo e, rammentandoli, si impegnerà in una coscienziosa classificazione dei medesimi. Ce ne sono «quattro tipi fondamentali», lo sapevate? Se non li conoscete, vuol dire che siete amanti pigri o, peggio ancora, distratti.
Il professore non è né l'una né l'altra cosa: egli non esita ad avventurarsi (verbo riflessivo di salgariana suggestione) nella suddetta foresta come un novello Darwin in ricerca di vergine flora da consegnare alla stiva della HMS Beagle, nave il cui nome - pronunciato "bigol" - farà risuonare nella mente dei lettori, certo dei lettori comaschi, l'allegro scampanellio di una licenziosa risonanza. A proposito di licenze, sentite che trittico propone la lettera "L" del Sillabario: "lascivo", "liscivia" e "lussuria". Lo so: la "liscivia" c'entra come i cavoli a merenda, eppure ci sta bene, a modo suo, con quella coppia sibilante di consonanti "sc" (si tratta di un digramma: l'ho scoperto consultando la Grammatica della lingua italiana di tale Marcello Sensini) che a sua insaputa l'apparenta alla sensualità delle altre due, anche se lei, la "liscivia", vorrebbe solo far pulizia laddove "lascivo" e "lussuria" diffondono compiaciute il torbido. Capirete dunque come l'avventura delle parole, essendo l'avventura della vita, non ne riconosce di uguali. L'importante è tenere la mente, il cuore e - perché no? - altre parti sensibili sempre ben sintonizzate. Altrimenti le parole passano e non c'è poi modo di apprezzarle per quello che sono, per ciò che valgono o, meglio, per ciò che possono valere.
Prendete la parola "sinonimo", che Roncoroni inserisce nel Sillabario. Che cosa ci fa "sinonimo" tra vocaboli come "gnàgnera", "pulzella", "seccacocoglioni" e "smargiasso"? Sembra un tale che, per sbaglio, si presenti in giacca e cravatta su una spiaggia riservata ai nudisti. "Sinonimo", si direbbe, è un termine tecnico, da grammatica, la cui impresa più significativa è quella di comparire sulla copertina dello specifico Dizionario. Invece no, perché "sinonimo", nella sua accezione di «parola che ha un significato sostanzialmente uguale a un'altra» (Devoto-Oli) vanta le sua particolarità e i suoi primati. Ed è proprio qui che la faccenda si fa interessante.
Scrive Federico Roncoroni: «...posso dire, senza temere di essere smentito, che, in italiano, come in quasi tutte le lingue, la parola che ha il più alto numero di sinonimi è (?) quella che indica il complesso degli organi sessuali esterni femminili». Mi fermo, perché avendo un mutuo da pagare e di conseguenza un impiego da tener caro, certi sinonimi non posso riportarli nel giornale: lascio a voi il compito di pensarci. Di pensare ai sinonimi in questione, si intende, non al loro significato. Non ci riuscirete, temo: dall'elenco delle paroline maliziose finirete per lasciar volare l'immaginazione fino all'oggetto stesso, che il regista Luis Buñuel, nel titolo di un suo film, voleva "oscuro" e legato al "desiderio", ed ecco dunque dimostrata la tesi che con le parole si va lontano, a volte oltre l'immaginabile.
Se vi sentite in colpa, assolvetevi senz'altro: a dirottare la vostra fantasia su quel particolare anatomico sono stato io, quindi la colpa è tutta mia. Oppure - forse il professor Roncoroni me lo concederà ricambiando una strizzata d'occhio - mio, per questa volta, è tutto il merito.

Federico Roncoroni, Sillabario della memoria, Salani editore, 299 pagine, 15 euro.

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