Chiamarla rinascita

«Ricostruiremo tutto». Come è costume, soprattutto recente, della politica, il primo ministro Matteo Renzi ha detto domenica ciò che volevamo sentirci dire. Forse, anche ciò che era giusto dire.

Il terremoto butta giù ciò che abbiamo costruito in secoli, quelli lontani, di bellezza e di durezze e noi, giustamente, vogliamo imporre a esso, alla sua imprevedibile brutalità, l’orgoglio della nostra ostinazione. E dunque ricostruire: mattone su mattone, pietra su pietra. Ricostruire Norcia, per esempio, nella sua semplice magnificenza, nella sua spiritualità pietrosa. Ricostruire, poi, le case dei tanti sfollati: per povere che fossero, dignitose come devono essere. Nessuno può contestare le parole di Renzi, perché esse vengono dal cuore di tutti: vogliamo ricostruire, insieme agli edifici, le nostre vite demolite, spaventate, senza alloggio. E tornare a vivere con i pensieri di sempre, siano essi allegri o tristi, malinconici o speranzosi.

In un angolo della testa, però, dobbiamo pur sapere che la ricostruzione, efficiente e spedita quanto speriamo sarà, non ci restituirà mai l’Italia di “prima” e non solo perché le strutture originali di edifici come la basilica di San Benedetto sono crollate. La ragione è che non c’è comunità passata attraverso la catastrofe che rimanga la stessa: non c’è più il Friuli di prima - forse la regione più ostinata e solerte nel rimettersi in piedi - così come non ci sono più l’Irpinia di prima e l’Abruzzo di prima. Anche la valle del Vajont dal 1963 non è più la stessa, e così Firenze dopo l’alluvione del 1966 e il Polesine dopo la piena del 1951.

Ricostruiremo, questo sì, e speriamo di farlo per bene. Ma non sarà come “prima” perché come “prima” non siamo già più. Abbiamo perduto tanto - vite e arte, sicurezze e abitudini - e, chissà, ora avremo almeno l’occasione di migliorarci come società. Non sarà ricostruzione, non sarà resurrezione: con un po’ di coraggio, potremmo chiamarla rinascita.

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