Cognati nella storia

Cognati nella storia

Sarà anche vero che il signor Giancarlo Tulliani, di cui tanto si parla in questi giorni, è un "poco di buono" o, per meglio dire, un "non abbastanza di buono". Nel suo agire risiede però una tara genetica che, in parte, lo solleva dalle sue responsabilità. Egli, infatti, è un cognato.
In realtà, dal punto di vista tecnico, non è un cognato, perché sua sorella Elisabetta, pur convivendo con Gianfranco Fini, non è sposata con il suddetto. Egli è dunque un "cognato", come scrivono i giornali, circondandolo con due enormi virgolette a guisa di orecchie posticce, appiccicate lì per prenderlo in giro. Cognato o "cognato", poco importa: l’essenza è la stessa e, duole dirlo, non aiuta il povero Giancarlo a riabilitarsi ai nostri occhi.
Da sempre dire "cognato" equivale a sminuire. Il cognato, nella cerchia familiare, occupa una posizione periferica, qualcuno potrebbe arrivare a dire clandestina. In altre parole, è un "imbucato" quando non proprio un parassita. Gode, nel migliore dei casi, di una fiducia condizionata e limitata a piccoli incarichi: «Mando mio cognato a prendere le chiavi»; «non ci pensare al canarino: verrà mio cognato a dargli da mangiare». A lungo andare, questo rifiuto sottinteso, questo sospetto atavico, rende i cognati persone amare, rancorose e capaci di qualunque bassezza. Lo testimonia la storia: i due matrimoni della sorella Drusilla fecero di Caligola un bi-cognato. E tutti sappiamo come andò a finire.

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