Siamo abituati a considerare le tragedie sotto un profilo sentimentale. Ci toccano, ci commuovono, ci spaventano. Peccato: se la nostra visione riuscisse a essere un poco più ampia e oggettiva, scopriremmo che, dietro i disastri, i lutti e gli orrori, non di rado si nasconde il progresso. Magari non un progresso per tutti, ma certamente per qualcuno.
Facciamo il caso di quanto è accaduto e sta accadendo in questi giorni. Nei cieli dell’Ucraina un missile colpisce un aereo di linea: 295 civili morti. In Medio Oriente, il conflitto tra israeliani e palestinesi provoca vittime in grande maggioranza tra la popolazione civile, in particolare nel perimetro di Gaza. Riflettendoci, non si può non scorgere un grande progresso per i militari: continuano a fare la guerra ma non rischiano quasi nulla. In altri termini: loro sparano, noi crepiamo.
È un paradosso, ma neanche tanto: i militari sanno dove si fa la guerra, quando, con che cosa di spara e dove, sparando, si mira. Noi civili non sappiamo niente di niente. Certo, i mezzi di informazione ci dicono che esistono parti del mondo con conflitti in corso. Sappiamo che, a Baghdad, se si desidera fare una passeggiata serale, oltre al maglioncino è opportuno portarsi un giubbotto antiproiettile. Ma è tutto molto vago, indistinto, impreciso. Poco sappiamo dei conflitti, delle forze che li alimentano, dei rischi di contagio che presentano e delle dinamiche - calcolatrici, vili e ricattatorie - che li muovono. In sostanza, non sappiamo niente di niente. Ci fidiamo e basta: facciamo i turisti, quando possiamo, e ci imbarchiamo sulle navi, sugli aerei, prendiamo i treni e noleggiamo le automobili. Il tutto nella convinzione, ingenua, di esistere in una società che rispetta ed esalta la vita e mette a frutto il progresso allo scopo supremo di difenderla e migliorarla. Niente affatto: la vita deve valere ben poco, in questo mondo, se a perderla è spesso chi è colpevole soltanto di innocenza.
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