Dovrei preoccuparmi per me stesso. Forse “preoccupare” è verbo troppo forte, ma certamente sarebbe il caso di provare un minimo di inquietudine per certi stati d’animo che, pur privi di logica, in me ricorrono spesso.
Veniamo al concreto. Gli stati d’animo che mi inquietano possono essere presentati con l’etichetta di “irritazione”, ma tale “irritazione” è talmente slegata dagli eventi che la provocano, così poco consequenziale e talmente spropositata che, forse primo caso nella lunga storia della psicologia e della ancor più lunga storia dei sentimenti umani, essa pare un fuoco senza combustibile, un fulmine senza elettricità, un colpo di grancassa senza grancassa. Perché davvero non si può definire “causa” dell’irritazione ciò che interviene a produrla. Certo, tecnicamente di “causa” si tratta, ma ci si vergognerebbe a confessarla, talmente è irrilevante.
Sarete d’accordo con me quando rivelerò, non senza un poco della vergogna di cui sopra, che una “causa” di irritazione, per me, è l’espressione “Tu sai bene come la penso”, ricorrente anche nelle varianti “È tanto che lo dico” e “Ricorderai che cosa ti dicevo sull’argomento”.
So bene che non c’è ragione di irritarsi imbattendosi - in una conversazione o, più spesso, in un “post” - in tale concetto, qualunque forma esso assuma, eppure a me capita. Sarà forse perché la ritengo la forma di solidarietà più sussiegosa e avara che sia concepibile? Sta a intendere, infatti, che la lamentela altrui, pur giustificata, è tardiva e niente affatto originale. Usandola, neghiamo all’amico la grazia di schierarci al fianco della sua rabbia, rispettandone il volume e la genuinità. No, nel solidarizzare, dobbiamo rubare la scena allo sdegnato; nel fraternizzare, dobbiamo metterci un passo davanti a lui.
Chissà, forse la mia insofferenza, in sé esagerata, è il sintomo di una più estesa avversione per un’epoca in cui l’egoismo pare del tutto fuori controllo. E non ditemi che so come la pensate!
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